il lupo, racconto di Alessandra Ricci

 

Tutto quanto è cominciato

non il giorno in cui son nato,

ma ebbe veramente inizio

quella notte di solstizio

in cui candida la sfera,

maestosa, arcana e fiera,

riluceva scintillante

come punta di diamante

“Un tocco di gel e vai, sono pronto.” Mi guardo allo specchio: profilo destro, profilo sinistro, di fronte. Tutto a posto, perfetto. “Sono proprio forte.”

Così mi sentivo, forte e fiero, quella fatidica sera. Erano quasi le dieci e mi apprestavo ad uscire; non potevo neanche lontanamente immaginare che di lì a pochi minuti sarebbe successo qualcosa che avrebbe sconvolto la mia vita e l’avrebbe cambiata per sempre.

Ma facciamo un passo indietro. Prima di raccontarvi questa storia, è necessario che vi dica qualcosa di me.

Sono un lupo, sì, un lupo vero, con le zanne, il pelo, gli artigli, tutto quanto. Ma no, non sono un lupo qualunque. Non vivo nei boschi, o sui monti, non ho una tana, non mangio altri animali e tanto meno persone. E non perdo il sonno ululando alla luna.

Vivo in una grande città. Prendo l’autobus, faccio la spesa, vado al cinema, saluto il postino tutte le mattine e scambio volentieri due chiacchiere quando se ne presenta l’occasione. Uso abitualmente il telefono, il forno a microonde e il video registratore.

Mi nutro soprattutto di dolci, merendine, bomboloni, ciambelle, cose così, ma mi piacciono anche i pop corn e la coca cola. Nel tempo libero, guardo la tivù, in particolare i cartoni e la pubblicità, oppure leggo, per lo più fumetti, e il sabato sera vado al bar, per un biliardo con gli amici.

Quanto alla mia casa, è un grazioso bilocale. Non è lussuoso, sia chiaro, ma è molto confortevole e sempre in perfetto ordine. Ci tengo molto alla pulizia della casa, io. Una lavatrice a settimana, l’aspirapolvere tutti i giorni e via discorrendo.

Più o meno è tutto qui. La mia vita non è molto diversa da quella della maggior parte della gente che abita in questa città. Certo, io sono un lupo. E allora? Ci sono altri animali, nel mio quartiere, che vivono come me, perfettamente a proprio agio in questa civiltà, completamente integrati nella comunità degli umani.

Prendete il mio amico Stinco, per esempio. E’ la persona, cioè il maiale, più pulito che conosco…Insomma, molto più di tanti umani che si vedono in giro. E Bronzino? Lui è un asso con la stecca da biliardo. Un’eleganza, una classe…! Sono riuscito a batterlo soltanto una volta, molto tempo fa….ma questa è un’altra storia.

Quella fatidica sera, per l’appunto, era  un sabato e stavo andando al bar per il solito biliardo. Mi sentivo piuttosto eccitato, come vi ho già detto, e, senza particolare motivo, molto sicuro di me. Sarà stato forse per questo che, uscendo in strada, non mi curai granché del traffico abituale del sabato sera. Con passo gagliardo, senza alcun pensiero al mondo, mi accinsi ad attraversare la strada. Ma non ebbi fatto che due o tre di quei passi gagliardi, che venni abbagliato da una luce accecante e subito dopo travolto da  quello che, nella frazione di secondo in cui fui in grado di formulare un pensiero, mi parve un siluro d’argento. Ci fu un gran baccano, mi sentii sollevato di peso come da una mano invisibile e poi lasciato andare sull’asfalto, dove atterrai con la schiena.

Da quel momento in poi, i ricordi si fanno confusi. Sentii un grido, delle voci, la vista cominciò ad appannarsi e mi resi conto che stavo per perdere i sensi. Ma una cosa la ricordo ancora, perfettamente. Sopra di me, pallida e implacabile, la luna piena. Provai una fitta al cuore, tanto era bella e possente. Poi svenni.

 

Mi risvegliai con un dolore lancinante alla zampa destra. Tentai di aprire gli occhi, ma dovetti richiuderli subito, perché mi girava la testa e avevo la nausea.

“Come si sente?” disse una voce di uomo.

Uno schifo, avrei voluto rispondere, ma non appena aprii la bocca scoprii che non riuscivo nemmeno a parlare.

“Lei ha avuto un incidente e ora si trova in ospedale.” Continuò la voce. “Quando l’hanno portata qui, delirava. Ha blaterato qualcosa a proposito di un siluro d’argento.”

“Gli umani”, pensai. “Brava gente, ma completamente privi di immaginazione.” Poi, senza tentare di resistere oltre, ripiombai nel sonno.

Quando mi risvegliai per la seconda volta, avevo ancora male alla zampa, ma riuscii ad aprire gli occhi e mi guardai intorno. Ero a letto, in una stanza spoglia ma pulitissima. Sul letto accanto al mio era disteso un uomo addormentato con la testa fasciata. Sulla fronte, attraverso la medicazione, si potevano scorgere tracce di sangue fresco. Fu allora, guardandolo, che mi sentii pervadere da una sensazione strana, mai provata prima. Qualcosa di intenso e travolgente, come un’onda anomala, che mi investì all’improvviso e mi provocò un panico incontrollabile. Chiusi gli occhi per un istante e cercai di calmarmi, pensando che probabilmente si trattava dell’effetto di qualche diavoleria chimica che i medici mi avevano somministrato per alleviare il dolore. Ma quando, timidamente, riprovai a volgere lo sguardo verso l’uomo con la fasciatura, mi sentii nuovamente sopraffatto da quella sensazione sgradevole. Voltai la testa di scatto. Cosa mi succedeva? Forse ero ancora sotto shock; in fondo non sapevo granché dell’incidente, a parte il fatto che qualcuno mi aveva investito e che c’era la luna piena. Già, che strano, era l’ultima cosa che ricordavo. E poi, non potevo escludere di aver riportato altri danni oltre a quello alla zampa. La voce, probabilmente di un medico, che avevo sentito quando mi ero svegliato la prima volta, non aveva detto nulla in proposito. Forse c’era dell’altro, ma il dottore non me ne aveva parlato per non spaventarmi.

Pensai che se avessi saputo qualcosa di più, mi sarei sentito meglio. E non appena vidi un’infermiera passare davanti alla porta della camera, la chiamai. Era graziosa e paffutella. Si mostrò gentile e affabile e non esitò ad esaudire le mie richieste. Appresi così che il siluro d’argento altro non era che una motocicletta nuova di zecca. Il conducente, uno scapestrato che probabilmente stava andando in discoteca o che so io, non mi aveva visto mentre attraversavo la strada e mi aveva preso in pieno. Un passante che aveva assistito all’incidente aveva chiamato l’ambulanza che mi aveva portato in ospedale.

” Non si preoccupi”, disse la paffutella,  “non c’è nulla di grave e presto sarà guarito del tutto.” Trassi un respiro profondo e cercai di rilassarmi; va tutto bene, mi dissi, tra qualche giorno tornerò a casa e dimenticherò ogni cosa. L’infermiera sorrise dolcemente, rincalzandomi le coperte. E in quel momento, nel sentire le sue braccia soffici e tornite aderire al mio corpo, accadde di nuovo. Questa volta fu ancora più terribile, perché mi resi conto, con orrore, di cosa si trattava. Non erano le medicine e nemmeno lo shock a provocarmi quella soffocante sensazione di panico. Era il riconoscimento di una forza oscura e remota che si stava impadronendo di me, una forza primordiale e arcaica, l’unica, da che mondo è mondo, cui nessun essere vivente può resistere: l’istinto predatore. La vista del sangue e della carne fresca avevano acceso dentro di me quella scintilla. Ma come era possibile? Io ero nato e cresciuto in cattività, come pure i miei genitori. Non lo sapevo, ma era successo. Mi trattenni a stento dal mostrare i denti, sperando che  l’infermiera non si accorgesse del mio stato. Per fortuna venne richiamata per un’emergenza e si allontanò dalla stanza. Il mio tormento finalmente cessò, lasciandomi esausto e in preda all’angoscia. Nel silenzio, sentivo il respiro regolare dell’uomo addormentato accanto a me. Per evitare di guardarlo, mi voltai dalla parte opposta, verso la finestra. E quando vidi la luna piena, stagliata nel buio della notte, sentii un tuffo al cuore. Rammentai di aver provato la stessa cosa, quella stessa notte, poco dopo l’incidente. Prima di allora, non era mai successo; che la luna ci fosse o no, per me non cambiava nulla, ero del tutto indifferente al suo fascino. Ero un lupo libero, civilizzato, evoluto.

Ma ora le cose stavano diversamente. La mia vita passata mi parve improvvisamente lontana, come un sogno di cui, col passare del tempo, si affievolisce il ricordo, e in quel momento, ipnotizzato dalla luce argentea della luna, mi sentii perduto, perché compresi che nulla sarebbe mai stato come prima.

Qualche ora più tardi, firmai un foglio dattiloscritto in cui dichiaravo di uscire dall’ospedale sotto la mia responsabilità e contro il parere dei medici.

Non avevo alternative. Cosa sarebbe successo se avessi avuto un altro attacco e non fossi riuscito a controllarmi? Le conseguenze sarebbero state tragiche, avrei rischiato la mia vita e quella altrui. Non potevo permetterlo.

Nonostante il dolore alla zampa e il mal di testa, quando mi ritrovai di nuovo in strada mi sentii sollevato. Per un brevissimo istante, provai l’illusione di essere ancora padrone del mio destino. Presi un taxi e mi feci portare a casa; speravo che tra le mura domestiche avrei ritrovato la pace e la tranquillità necessarie per fare chiarezza sugli avvenimenti delle ultime ore. Ma non fu così. Quando varcai la soglia del mio appartamento, fui immediatamente sopraffatto da un senso di estraneità. La mia amata dimora, della quale mi prendevo cura con tanto amore ogni giorno, non era più il luogo familiare e accogliente in cui avevo sempre trovato calore e conforto. Mi aggiravo tra gli oggetti che fino al giorno prima mi erano tanto cari e mi sembrava che appartenessero a qualcun altro. Come la mia stessa vita, d’altro canto, dalla quale ero stato sbalzato a migliaia di chilometri di distanza.

Mi lasciai cadere sul letto. Ero confuso e spaventato. Cosa stava accadendo dentro di me? La pulsione che avevo provato alla vista del sangue, l’attrazione per la luna e il senso di estraneità nei confronti del mio mondo erano segnali inequivocabili di un cambiamento profondo. Ma di cosa si trattava? Non ne avevo idea, ma sentivo che era al di là della mia volontà e che non ero in grado di controllarlo.

Caddi in una specie di delirio febbrile, nel quale si alternavano sonni agitati a risvegli repentini. Negli incubi, rivedevo il sangue sulla fasciatura del mio vicino di letto, all’ospedale, e sentivo su di  me le braccia morbide e grassocce dell’infermiera Non so per quanto tempo rimasi in quello stato, so soltanto che ad un certo punto fui costretto ad alzarmi perché avevo dei violenti crampi allo stomaco. Rammentai che non mangiavo nulla dalla sera precedente. Come di consueto, sabato mattina avevo fatto la spesa, rifornendo il frigo e la dispensa delle provviste settimanali. Rovistai freneticamente tra confezioni di pop corn e dolciumi vari, ingurgitando avidamente tutto ciò che mi capitava a tiro. Ma la mia fame non si placava, al contrario sembrava aumentare ogni minuto di più e gli spasmi allo stomaco si facevano sempre più violenti.

Le immagini che avevano popolato gli incubi di poco prima tornarono a tormentarmi, trasformandosi in vere e proprie fantasie. Mi vedevo avventarmi sull’uomo ferito e strappargli la medicazione, oppure nell’atto di braccare l’infermiera che mi aveva rimboccato le coperte, affondando le zanne nella sua carne polposa e succulenta.

Cominciai ad aggirarmi per il mio appartamento, in preda a una frenesia incontrollabile, finché non scorsi, distrattamente, la mia immagine riflessa nello specchio sopra la cassettiera. Mi arrestai, atterrito da ciò che avevo visto. Avevo il pelo ispido, arruffato, e nei miei occhi c’era un bagliore selvaggio, quasi malefico. Dalla mia bocca, deformata da un ghigno, colava una bava bianca e schiumosa. Che ne era di quel lupo fiero e prestante che si rimirava in quello stesso specchio non più tardi di poche ore prima? Sparito, volatilizzato nel nulla. Al suo posto, ce n’era un altro, completamente diverso: era un lupo assetato di sangue.

E quel lupo ero io.

Era inutile resistere oltre. La terribile realtà che avevo disperatamente cercato di negare era ora davanti ai miei occhi. La mia natura, finalmente libera da ogni costrizione, esigeva il suo debito.

Proruppi in un latrato sordo, disperato. Poi, come una furia, mi precipitai alla porta di casa e uscii nel buio della sera, a caccia di carne fresca.

 

Da quel momento in poi, la mia vita fu un’inesorabile discesa agli inferi.

Ogni notte, l’istinto feroce del predatore prendeva il sopravvento su di me, spingendomi nelle strade deserte della città per compiere il macabro rituale. Mi appostavo negli angoli più bui ed oscuri per avventarmi su un gatto randagio o un piccione ferito; qualche volta, quando non trovavo di meglio, mi vedevo costretto ad introdurmi nelle rispettabili case degli umani addormentati, per profanare la gabbia di un canarino o la tana di un criceto.

E ogni giorno, da predatore mi trasformavo in preda io stesso, ma questa volta del disgusto e del senso di colpa. Rimanevo a casa a tormentarmi per ciò che avevo fatto, fino al calar del sole, quando, contro la mia stessa volontà, tornavo a farlo ancora.

Mi sentivo come il dottor Jekill e Mister Hide, il bene e il male prigionieri di uno stesso corpo.

Quando c’era la luna piena, salivo sui tetti e ululavo finché avevo fiato in gola, sfogando così tutta la mia disperazione e la mia angoscia. Lei, la sfera misteriosa ed enigmatica, era l’unica a custodire il mio terribile segreto ed era l’unica che, con il suo silenzio, potesse darmi un po’ di conforto.

Quanto agli amici di un tempo, li evitavo come la peste. Non volevo che mi vedessero ridotto in quello stato, ma soprattutto mi preoccupavo della loro incolumità. E se, disgraziatamente, non fossi riuscito a resistere alla tentazione di mangiarmeli? Che orrore! Avrei perduto anche l’ultimo brandello di dignità che ancora mi restava.

Non potevo andare avanti così, prima o poi sarei crollato, senza contare che le mie strane abitudini cominciavano ad insospettire il vicinato.

Dovevo  por fine a quell’incubo e più il tempo passava, più mi rendevo conto che da solo non ce l’avrei mai fatta. Avevo un disperato bisogno di aiuto, ma a chi avrei potuto chiederlo?

Poi, in uno degli interminabili pomeriggi passati in casa a struggermi per il senso di colpa, ebbi l’illuminazione. Come al solito, mi aggiravo da una stanza all’altra nel vano tentativo di placare l’angoscia che mi attanagliava, cercando di trovare qualcosa da fare che mi tenesse occupato e mi facesse dimenticare, se pur per pochi minuti, la mia sventurata situazione.

La televisione rigurgitava il solito miscuglio di banalità e cattivo gusto. Avevo smesso da tempo di guardarla, ma soltanto il fatto di tenerla accesa mi dava l’illusione di esser meno solo, di far parte, nonostante tutto, ancora del mondo. Nell’altra vita, perché era così che ormai consideravo la mia esistenza prima dell’incidente, passavo ore intere sdraiato sul divano a godermi ogni sorta di intrattenimento e programma. Ma ora non me ne importava più nulla, me ne disinteressavo completamente. Il mio cervello registrava meccanicamente parole e suoni, senza prendersi la briga di coglierne il senso. Quel giorno, però, qualcosa si fece strada prepotentemente in quella coltre di indifferenza e risvegliò la mia attenzione.

“Si può sempre guarire, basta volerlo.”

Fu come se, anziché provenire dal televisore, quella frase fosse stata pronunciata da qualcuno in carne e ossa, alle mie spalle.

Mi voltai di scatto, quasi mi aspettassi di trovare davvero qualcuno dietro di me. Poi mi avvicinai all’apparecchio e mi sedetti sul divano. Si trattava di un programma registrato in studio, nel quale venivano raccolte testimonianze di persone che avevano avuto disturbi del comportamento. Erano tutti umani, perché non era mai accaduto, come appresi seguendo la trasmissione, che cose del genere si verificassero tra gli animali che pure, come me, vivevano nella stessa comunità. L’uomo che aveva pronunciato quella frase rivelatrice stava raccontando della sua sofferenza e di come ne fosse uscito, grazie a un prezioso aiuto.

Ma certo! Come avevo fatto a non pensarci prima? E’ proprio vero, la soluzione ai problemi, a volte, è proprio sotto i nostri occhi, ma non sappiamo vederla. Mi alzai, spensi il televisore e andai a prendere la guida telefonica.

Fu così che decisi di andare da uno strizzacervelli.

 

Mi allentai il nodo della cravatta. Dal giorno dell’incidente, non avevo più indossato un abito che potesse dirsi tale e ora non sopportavo più il contatto della stoffa sul mio corpo. Avevo pruriti dappertutto e sudavo copiosamente. Inoltre, non ero affatto sicuro di avere un bell’aspetto. Il mio pelo, molto cresciuto negli ultimi tempi, sbucava in ciuffi ribelli dal colletto e dai polsini della camicia e la capigliatura, un tempo folta e fluente, si era ridotta a un ammasso di ciocche rade e ispide.

Mi agitai sulla sedia, inquieto. Da più di dieci minuti ero seduto nella sala d’aspetto dello studio medico e a ogni istante che passava lottavo per controllare l’impulso di alzarmi e andarmene. Non avevo la più pallida idea di chi  mi sarei trovato di fronte, varcando la porta dello studio. Quando avevo consultato la guida telefonica alla ricerca di uno strizzacervelli, ero rimasto sconcertato nel constatare quanti ve ne fossero e, non sapendo come orientarmi, avevo deciso di affidarmi al caso. Con gli occhi chiusi, avevo puntato il dito sull’interminabile elenco di nomi.

La scelta era caduta su una certa dottoressa Biancalana. Sicché, soltanto questo sapevo della persona alla quale avrei confessato il mio terribile segreto: il suo nome e nient’altro.

Ero ormai al colmo dell’agitazione quando finalmente la porta si aprì. Ne uscì un ragazzo, avrà avuto più o meno quindici anni, in t-shirt e pantaloni neri. Aveva le braccia coperte di tatuaggi e, nei pochi secondi che mi passò accanto, non feci in tempo a contare tutti i suoi piercing, tanti ne aveva. Mi oltrepassò, non senza avermi riservato uno sguardo di sfida, e se ne andò. “Chiunque sia questa strizzacervelli,” pensai “dev’essere una tosta per aver a che fare con un tipo del genere.”

Mi alzai. Non sapevo se aspettare che mi chiamassero o farmi avanti. Misurai la stanza a grandi passi, sempre più inquieto, finché l’impazienza ebbe la meglio. Mi diressi deciso verso la porta e bussai.

“Avanti” disse una voce dall’interno. Benché il tono fosse deciso, era straordinariamente calda e avvolgente.

Ebbi un’ultima esitazione. Avrei fatto ancora  in tempo, dopotutto, a tagliare la corda. Ma non lo feci. Se per guarire bastava volerlo, io lo volevo disperatamente, ed era per questo che mi trovavo lì. Respirai profondamente, quindi abbassai la maniglia ed entrai.

Quando la vidi, la mia sorpresa fu tale che vacillai. Era seduta dietro la scrivania, su una grande poltrona di pelle. Morbidi boccoli color platino le ricadevano sulla fronte e sulle spalle, e gli occhi, castani e dolcissimi, mi guardavano con un’intensità travolgente, come se sapessero leggermi dentro. Era bellissima e conturbante e tuttavia non era stato questo a sorprendermi. Già sapevo che si trattava di una femmina, ma avevo dato per scontato che fosse un essere umano. Invece no. La splendida creatura che mi stava davanti non era una donna, era una pecora.

E che pecora. Se qualcuno dovesse descrivervi questo animale come un essere dimesso e privo di personalità, beh, non credeteci, è soltanto una leggenda metropolitana, una sciocca invenzione degli umani. L’esemplare che per la prima volta avevo l’opportunità di vedere dal vivo ne era la dimostrazione lampante.

“Si accomodi” disse lei vedendomi ancora fermo sulla soglia. Nel sentire nuovamente la sua voce ebbi un mancamento. Era come una musica dolce e suadente che risvegliò dentro di me un improvviso e irrefrenabile desiderio.

Dimenticai ogni cosa; il disgusto di me stesso, la frustrazione, il senso di colpa, e anche i buoni propositi che mi avevano portato fin lì. Tutto scomparve al cospetto di un’unica certezza: volevo quella creatura a ogni costo. Ma non tra le mie braccia, la volevo tra le mie fauci.

Scattai in avanti e le saltai addosso. Affondai le zanne nella sua carne, mentre lei, ostinatamente, continuava a sorridermi.

 

Un bagliore intensissimo e argenteo mi costringe ad aprire gli occhi. Sono esausto e ho un dolore lancinante alla zampa destra. Frastornato, faccio vagare lo sguardo attorno a me, nel buio rischiarato da quel bagliore. A poco a poco, i miei occhi sono in grado di distinguere le pareti nude e rocciose che mi circondano e  il mio fiuto di riconoscere l’odore acre e penetrante della terra. Alzo la testa e protendo il muso nella direzione dalla quale proviene la luce. Al di sopra dei monti e del profilo degli alberi, il cielo stellato. E lì, a illuminare il paesaggio come un immenso faro, la luna piena.

Improvvisamente, come se anche la mia mente fosse folgorata da quella luce, comprendo ogni cosa. Il biliardo, la motocicletta, l’infermiera, la televisione, lo studio della psicanalista, tutto ciò non é stato altro che un sogno. Un sogno incredibile e sconvolgente, le cui immagini cominciano già a decomporsi nei miei ricordi, una dopo l’altra. E’ tutto finito, sono a casa adesso.

Esco dalla tana e l’aria pungente della notte mi accarezza il pelo. La zampa destra mi duole ancora, ma ora ne rammento il motivo. Mi sono ferito correndo nel bosco, durante un temporale, poche ore fa. Non è un taglio profondo e guarirà presto, è solo questione di tempo.

Quando mi sono addormentato, pioveva ancora violentemente. Ora, spazzate dal vento, le ultime nubi si aprono sul cielo più bello che abbia mai visto

Comincio a correre, sempre più veloce, finché non giungo in prossimità di un picco, e lì mi fermo. La luna sembra vicinissima. Nel silenzio, aspetto che il mio cuore riprenda a battere regolarmente. Poi intono il mio canto.