Claudia Lars, la bambina che vide una salamandra, di Maria Teresa Messidoro

In diverse mitologie e tradizioni popolari la salamandra è considerata un animale magico, portatrice dello spirito del fuoco, in grado di attraversare le fiamme rimanendo illesa. Si racconta che nei primi anni del Novecento, nel piccolo paese di Armenia, nella zona occidentale di El Salvador, una bambina vide uno strano animale sorgere dal fuoco e dal fumo che la circondava, un animale che la osservava con occhi quasi umani. Affascinata e impaurita, corse dal padre per raccontargli ciò che aveva visto; il padre le spiegò che aveva appena visto una salamandra, capace di cambiare pelle tutte le volte che era necessario, capace anche di arrivare all’anima più profonda del fuoco, per mantenerlo in vita.
Quella bambina si chiamava Margarita del Carmen Brannon Vega, nata nel 1899, che diventerà Claudia Lars, una poeta capace di vedere il fuoco divino, regalando a tutti bellezza e magia. Claudia sarà anche capace di cambiare molte pelli nella sua vita, fino alla morte, sopraggiunta il 22 luglio 1974, a settantacinque anni.
La piccola Margarita amava scrivere storie a partire dalle cartoline che la madre e le zie conservavano in una piccola scatola di giunco, raccontando di posti lontani che lei ancora non conosceva ma che la affascinavano. Poi venne il terremoto del 1917, provocato dall’eruzione del vulcano di San Salvador, un evento che provocò più di mille morti, distruggendo case e vegetazione. Da allora Margarita non fu più la stessa: decise di viaggiare, per conoscere altre vite e altri luoghi; in uno dei suoi primi viaggi conobbe Salomón de la Selva, poeta nicaraguense, con cui ebbe una relazione sentimentale, ostacolata dalla famiglia. Successivamente, sposerà Le Roy Beers, statunitense, poi il guatemalteco Carlos Samayoa Chinchilla: ogni volta cambiò pelle, luoghi, circostanze, proprio come la salamandra.
Iniziò a scrivere poesie ancora adolescente. Il suo primo libro, Tristes mirajes, uscì quando lei aveva solo diciassette anni, grazie al suo mentore, il poeta Juan José Cañas, diventato famoso in El Salvador per aver scritto l’inno nazionale. Fu firmato come Carmen Brannon; per questo alla ragazza non piacque: bisognerà aspettare altri diciotto anni per vedere edito il primo libro come Claudia Lars, Estrellas en el pozo. Claudia era molto esigente prima di tutto con sé stessa, amante della perfezione. È importante ricordare che a quel tempo erano rare le scrittrici, anche soltanto come autrici di articoli per i giornali dell’epoca: Claudia scelse invece di pubblicare alcune delle sue note, e di non nasconderle nei cassetti delle case in cui molte donne erano relegate.
Quando visse negli Stati Uniti, si adattò a lavorare in una fabbrica, imparò l’inglese, strinse una profonda amicizia con la poeta cilena Gabriela Mistral, con cui scambiò molte lettere, discutendo sul ruolo delle scrittrici e sulla condizione della donna nel continente americano.
Quando invece soggiornò in Guatemala, fu incorporata dall’allora presidente José Arevalo in progetti politici ed educativi: nel 1948 fu nominata aggregata culturale dell’ambasciata salvadoregna in Guatemala.
Claudia mantenne una relazione di amicizia e confronto con la salvadoregna Maria Locuel, pioniera femminista, con la compagna d’infanzia Mélida Palacios, infermiera, che fondò una scuola di infermeria che chiamò Enfermeras visitadores de El Salvador. Continuò a lungo un carteggio con la poeta costaricense Eurice Odio, che viveva a Città del Messico, un mondo lontano mille miglia dai piccoli paesi centroamericani in cui erano cresciute Claudia e la stessa Eunice.
Possiamo immaginare Claudia mentre cammina verso la piazza centrale di El Salvador, sola, con alcuni libri sotto il braccio; entrerà in un cafetin, frequentato praticamente soltanto da uomini, che leggono il giornale, discutono, avvolti dal fumo delle sigarette e dall’odore aspro del caffè; a volte incontrerà una delle sue amiche, a volte rimarrà sola per ore, a leggere o a scrivere, sfidando le consuetudini di un paese da sempre maschilista e patriarcale.
Con il passare degli anni, Claudia si accorse che i suoi capelli si imbiancavano e che il suo passo diventava più lento; ma non smise mai nemmeno un giorno di scrivere. Quando compì settanta anni, nel 1969, stava dirigendo la storica rivista salvadoregna Cultura, nella cui sede si recava tutti i giorni, a piedi, soffermandosi a scambiare due parole con la bambina che vendeva tortillas all’angolo della strada o osservando i pochi uccelli rimasti a volare su una città già troppo rumorosa.
Nel suo ufficio, Claudia riceveva i giovani autori, accogliendoli con lo stesso rispetto che aveva nei confronti degli scrittori famosi che decideva di pubblicare sulla rivista. Viveva nella colonia Nicaragua di San Salvador, circondata da un giardino che le ricordava la natura della sua piccola casa ad Armenia. Quando morirà, nel 1974, nella bara e sulla tomba, fu avvolta da molti fiori, così come lei stessa aveva chiesto.
Forse, mancava soltanto una salamandra.
O forse c’era, nascosta, a salutare chi aveva cambiato mille pelli e aveva sviluppato il dono della poesia, diventando immortale.
«Appartengo alla nudità del mio linguaggio
e ho bruciato silenzi e bugie
sapendo che trasformo
la storia delle madri.
Donna.
Solo donna».