viaggio nel profondo sud, Palermo, di Maria Grazia Borla

Per i miei settant’anni, a giugno, desideravo un dono particolare, non un oggetto, ma un viaggio perché è ciò che maggiormente mi arricchisce, mi ritempra, mi dà gioia. Più che i paesaggi cerco opere d’arte per unirmi simbolicamente allo spirito di chi le ha compiute, per collegarmi e immergermi nel periodo storico e immaginare le tecniche di realizzazione. Sono particolarmente attratta dai lavori collettivi, da quelle opere, in genere grandi opere, espressione di capacità di gruppo, rese più belle dalla partecipazione ben coordinata di tutti e tutte.
Mi affiorò l’immagine di Palermo, città visitata in gioventù, ma con molte parti lasciate incompiute, specie quelle di epoca arabo-normanna di cui famosi sono i mosaici bizantini, opere appunto collettive. Avevo il ricordo forte di Monreale e del suo gran mosaico del Cristo Pantocrator, quello della famosa scena del film Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli del 1972, in cui il papa approva la regola francescana prendendo ispirazione proprio da quell’immenso Cristo.
Avevo voglia di rivederlo e con esso anche i monumenti che mi erano mancati in gioventù. Quattro giorni a Palermo dunque! Atterrati all’aeroporto Falcone e Borsellino, un taxi condiviso ci porta nella zona del nostro B & B che sapevamo essere in centro, ma ancora non ne conoscevamo l’esatta ubicazione. Subito ci rendiamo conto di essere nella città vecchia, ce lo dicono le case basse, le viuzze strette dai nomi scritti in arabo ed ebraico oltre che in italiano, legate agli antichi mestieri, quando tutti quelli che facevano lo stesso lavoro si mettevano vicini e si costituivano in corporazioni; la nostra via è dei Lampinelli, quelli cioè che costruivano lanterne di vetro saldate con il metallo di gusto arabo. La zona è quella araba, infatti essi rimasero a Palermo, così come gli ebrei, a lungo, partecipando attivamente alla vita della città, specie nel periodo normanno, fino alla loro cacciata a fine Quattrocento. Questo fatto ebbe tristi conseguenze per la città, così come fu in Spagna e in Portogallo, perché vennero a mancare le migliori teste pensanti, i colti e le maestranze che avevano collaborato nella costruzione dei meravigliosi palazzi e dei luoghi di culto che saremmo andati presto a visitare.
Nella zona dell’antica città, tolto Monreale che dista circa 8 chilometri, sono dislocate le antiche perle di Palermo, cosa che permette di visitarle camminando a piedi. Poche sono le strade principali del centro; corso Vittorio Emanuele II, via Maqueda e via Roma, ricche di negozi per i turisti; fuori di esse tutto ha un taglio molto popolare.
Abbiamo raggiunto la chiesa di San Cataldo, gioiello architettonico del XII sec. a forma di parallelepipedo a tre navate, divisa da colonne con capitelli di riporto e con tre cupole rosse di manodopera araba; spiccano il pavimento a tarsie policrome in marmo e porfido, testimonianza di maestria artigianale. Rappresenta uno dei capolavori di interazione tra diverse culture e epoche storiche ed è uno dei siti dell’arte arabo-normanna riconosciuti patrimonio dall’UNESCO dal 2015.
Un secondo è la Martorana, proprio accanto a San Cataldo; la parte più antica è chiaramente quella dell’abside dove si è inondati dall’oro dei mosaici relativi ai momenti liturgici, dei quali Cristo che incorona Ruggero II e Giorgio di Antiochia in adorazione della Vergine sono autentici capolavori dell’epoca normanna. Lo spazio della chiesa è organizzato intorno alla cupola sorretta da quattro colonne, da cui partono quattro bracci che formano il disegno di una croce al cui centro c’è l’altare. La disposizione dei mosaici, eseguiti verso il 1150, segue uno schema semplice e simmetrico, dove tutto ruota intorno alla figura del Cristo Pantocratore, cioè onnipotente, signore del mondo, rappresentato al centro della cupola. Cristo è seduto sul trono mentre benedice, circondato da angeli adoranti. Nel tamburo, cioè nella parte che unisce la chiesa alla cupola, sono raffigurati i Profeti e nelle nicchie ci sono i Quattro Evangelisti. Le scritte in greco tra i mosaici sono dovute al fatto che questa è una chiesa dove si celebra ancora oggi secondo il rito bizantino, quello della Chiesa d’Oriente, quindi in lingua greca e in albanese, a ricordo degli albanesi che si rifugiarono qui inseguiti dai turchi nel XV sec. Accanto a queste due chiese si affaccia il monastero domenicano di Santa Caterina di Alessandria, costruito nel XVI secolo, che accoglieva le fanciulle delle famiglie più importanti avviate alla vita monastica, per lasciare l’eredità e i titoli nobiliari al primogenito maschio o la dote per un matrimonio combinato di una femmina della famiglia, mentre per le altre sorelle non rimaneva che il convento. La chiesa è molto decorata con marmi pregiati, donazioni delle famiglie delle monache. Dalle grate dorate del piano superiore si potevano intravedere o meglio immaginare le monache che non potevano essere viste durante le funzioni. Esse raggiunsero al massimo il numero di quattrocento e furono presenti sino a dieci anni fa. Dalla sontuosità della chiesa si può passare ai locali ben più sobri dove queste vivevano. Erano testimoni dell’antica tradizione dolciaria siciliana di cui mantenevano i segreti anche tra loro stesse.
Riprendendo il circuito arabo normanno dell’Unesco, leggermente più lontana dal centro, abbiamo raggiunto il palazzo della Zisa, che in arabo significa “la splendida”, circondata da giardini con giochi d’acqua, come solo gli arabi sapevano fare. Fu costruita nella seconda metà del XII secolo e pensata come residenza estiva del sovrano con architettura normanna e integrazione araba, specie per il gioco di aereazione degli ambienti per creare frescura. È una costruzione massiccia, austera, senza balconi così da rendersi inespugnabile. Splendida è la sala della Fontana con decorazioni ad alveare che ricordano quelle dell’Alhambra a Granada. Colpisce la perfetta convivenza culturale tra differenti culture; mi ha colpito una tavoletta a ricordo di una donna lì vissuta scritta in più lingue: ebraico, greco, latino e arabo… a testimonianza del rispetto reciproco di chi viveva, o meglio conviveva, nel palazzo. Nelle sale, ricche ancora di alcuni oggetti di utilità pratica, si avverte la contaminazione di stili. La Zisa si trova nella Palermo periferica, quella di anonimi palazzoni, di negozi fatiscenti, dove il traffico è vivace e dove il casco per i motociclisti è ancora da venire. Appena si raggiunge l’arteria principale, ossia corso Vittorio Emanuele II, lungo 2 km, si ritrova immediatamente la Palermo più elegante. Il punto nevralgico su questo corso è i Quattro Canti che rappresentano le quattro stagioni con splendide statue di Venere, Eolo, Bacco e Cecere. Quattro sono anche le sante protettrici della città, Agata, Oliva, Ninfa e Cristina, e quattro i re spagnoli che fecero grande Palermo, Carlo V e i tre Filippi II, III e IV. Qui si svolgono eventi musicali di vario genere; a noi è capitato il concerto bandistico dei carabinieri con pezzi famosi tra cui, a me simpatico, Ciuri ciuri.
Per il giorno successivo era in programma il boccone prelibato, proprio quello che non avevo visitato in gioventù e che mi aveva acceso la voglia di ritornare a Palermo: il palazzo Normanni con la famosa cappella Palatina, patrimonio dell’Unesco e quindi ben tenuto e restaurato. È la più antica residenza reale d’Europa e attualmente sede dell’Assemblea regionale siciliana, sede imperiale del famoso Federico II. Di origine araba del XI secolo, ampliato dai normanni e poi rimaneggiato nei secoli. Si entra nel bellissimo cortile secentesco a porticati e ariose logge da cui parte una scalinata che porta alla famosa cappella Palatina, cappella quindi del palazzo e in antichità non soggetta al potere ecclesiastico. È un gioiello sia di architettura che di decorazione; mi sono veramente commossa appena entrata, una bellezza da mozzare il fiato! Tre navate divise da archi acuti su colonne antiche, tre absidi e tre cupole. Il soffitto è opera araba lignea e le pareti sono a mosaico in puro stile bizantino narranti le storie di San Pietro e san Paolo con scritte in latino, mentre le scene evangeliche sottostanti hanno scritte in greco. Nell’abside centrale trionfa Cristo Pantocratore.
I pavimenti stupendi sono opera dei maestri marmorari cosmateschi romani, con disegni bizantini e qualche influenza di origine egizia; sono composti da minuscole tessere marmoree e in vetro, di diversi colori e svariate sfumature, mentre i grandi tondi di porfido derivano da sezioni circolari di colonne antiche di spoglio. Si deve a Ruggero II, padre di Costanza d’Altavilla, la realizzazione di questo palazzo e la fondazione del regno normanno. Sua figlia divenne moglie di Enrico VI, figlio del Barbarossa, e madre di Federico II, figura di immensa importanza politico-culturale per l’Europa di quell’epoca e per l’Italia in particolare. Il circuito arabo-normanno prosegue con la chiesa di San Giovanni degli Eremiti che, prima che cristiana, fu moschea; possiede cinque cupole rosse, ma non ha decorazioni, possiede invece un piccolo chiostro con colonnine binate del ‘200. Benché lo avessi già visitato in passato, irresistibile è stata la voglia di rivedere il duomo di Monreale, qualche chilometro fuori città. Salendo in collina si ha una stupenda vista di Palermo e del suo golfo. Si arriva dalla parte dell’abside del duomo e nell’avvicinarmi all’ingresso mi sentivo emozionata per la maestosità decorativa che mi attendeva e invece… ecco un deludente drappo a nascondere l’intera conca absidale, quella del grande mosaico per… lavori di restauro in corso. Totalmente inaspettato è l’inconveniente che lascia l’amaro in bocca, ma apre all’opportunità di gustare meglio le altre parti, ossia i mosaici delle navate di poco successivi a quelli della Cappella Palatina. Magnifici anche i pavimenti marmorei di raffinata manifattura che contengono messaggi simbolici di natura numerologica medioevale. Una salita sul tetto del duomo ha reso interessante anche la vista dall’alto. La mia lunga esaltazione e idealizzazione del Pantocratore, attualmente non visibile, mi ha insegnato una cosa importante: che nella vita è meglio abbassare lo sguardo su un piano di realtà più concreto, piuttosto che continuare a idealizzare l’alto. La visita quindi è stata proficua anche sul piano esistenziale, oltre che artistico.
Per il nostro ultimo giorno volevamo ricordare il grande pittore contemporaneo siciliano Renato Guttuso e far visita al suo famoso dipinto: la Vucciria, che è un omaggio al mercato di alimentari molto noto a Palermo. Egli lo aveva voluto inserire in un palazzo significativo in piazza Marina, proprio sul mare, palazzo Chiaramonte, detto Steri. È un antico palazzo del XIV sec, via via rimaneggiato, oggi sede universitaria. Questo fu il triste luogo delle carceri dell’Inquisizione in Sicilia e del suo Tribunale, chiuso solo nel 1782 con l’eliminazione degli strumenti di tortura e dei documenti processuali. Nei lavori di restauro negli anni ’50 furono rinvenute, nelle celle dei prigionieri, al primo piano, delle testimonianze pittoriche sulle pareti delle celle eseguite con la polvere dei mattoni unita ad acqua, dove i prigionieri hanno rappresentato il loro dolore.
Molti, tra cui la Chiesa stessa, non volevano restituire tale testimonianza al pubblico, ma fortunatamente è prevalsa, nella accesa diatriba, la voce storica della verità e non quella della sua negazione. Spesso fu per impossessarsi dei loro beni che gli imputati venivano accusati e condannati falsamente di eresia e i dipinti lo manifestano. L’Inquisizione fu una terribile pagina che non fa onore alla Chiesa cattolica, ma che non può essere nascosta come si è tentato di fare. In una grande sala a piano terra del palazzo abbiamo ammirato e ascoltato il quadro di Guttuso che fa riferimento ai suoi ricordi d’infanzia e di gioventù: colori e voci di quel mercato pieno di confusione: Vucciria significa proprio confusione. Mentre si ammira il quadro vengono trasmesse le registrazioni delle voci di chi vendeva la propria merce, dando alla scena un gran senso di realismo. Guttuso lo dipinse in breve tempo, di getto, facendosi mandare dal sud quei prodotti che a Varese, città dove abitava negli anni ’70, non c’erano, quali ad esempio i pesce spada o certi frutti. Il dipinto è un omaggio ai prodotti della terra e del mare del suo Sud.
Chiudiamo la visita a Palermo con un salto al Museo Archeologico Antonino Salinas, in fondo a corso Roma. Si trovano reperti archeologici sistemati nei locali al piano terra, attorno ai due chioschi, e nelle sale dei due piani superiori che illustrano la civiltà antica della Sicilia, dall’epoca preistorica all’età romana. Di notevole interesse sono le metope provenienti dai templi di Selinunte. Impressionante è la ricostruzione a misure reali del frontone del tempio con la collocazione dei pezzi recuperati; trovandosi lì si ha quindi la sensazione realistica di essere di fronte al vero tempio greco di ordine dorico di Selinunte; ciò che noi chiamiamo Sicilia fu Magna Grecia, terra di immensa cultura che ha dato i natali a grandi pensatori come Pitagora e Archimede, Empedocle, Gorgia e altri.
Voglio però chiudere con un omaggio alle donne di Sicilia: Maria Costa, poeta in lingua siciliana che scrisse in dialetto per preservare la sua cultura, proprio all’indomani del terremoto di Messina; Franca Viola che rifiutò il famigerato matrimonio riparatore; Franca Florio imprenditrice; ma sono le donne contro la mafia a esserci di maggior esempio come Francesca Morvillo, magistrata, assassinata con Giovanni Falcone; Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato, che con la sua costanza e tenacia ha ottenuto di veder incriminati i mandanti mafiosi del figlio; Rita Atria , di famiglia mafiosa che si è tolta la vita all’indomani della strage di via d’Amelio; Rita Borsellino, sorella di Paolo, che è stata un’attivista politica molto impegnata per la giustizia e Maria Falcone, sorella di Giovanni e attivista antimafia. Sono tutte loro e molte altre che ci infondono coraggio e speranza.