Beatrice Cenci, di Vilma Gaist, Giovane Holden edizioni 2023, recensione di Daniela Domenici

Sono appena riemersa dalla splendida biografia romanzata che Vilma Gaist dedica a Beatrice Cenci, una giovane nobildonna italiana giustiziata, a soli ventidue anni, con l’accusa di parricidio e poi assurta al ruolo di eroina popolare per essersi difesa dal padre violento e depravato nella seconda metà del 16esimo secolo.
Semplicemente straordinaria, affascinante e commovente la ricostruzione che Gaist fa della breve vita di questa ragazza, ricca di dettagli e con dialoghi così veri che sembra di essere lì con lei prima a Roma, poi a Petrella, un borgo dell’Abruzzo dove il padre la confina insieme alla sua matrigna Lucrezia, e infine di nuovo a Roma dove si concluderà la sua vita.
Perfetta la caratterizzazione dei/lle tanti/e coprotagonisti/e, dal padre Francesco a monsignor Mario, a Olimpio e Marzio, da Giacomo e Bernardo, fratelli di Beatrice, al giudice che proverà a difenderla, ognuno/a di loro ha un ruolo importante nella storia di questa donna che la sera prima dell’esecuzione Gaist immagina che pensi queste parole che estrapolo dalle ultime pagine del libro “L’isolamento in carcere, finito. Lo stillicidio degli interrogatori, finito. La confessione, una liberazione; aveva pareggiato i conti con se stessa, con l’innocente fratello, con Olimpio e con Marzio, un redde rationem che l’aveva catapultata, però, nella condizione di indifesa perché aveva perduto la caparbia volontà di resistere. Più niente, ormai, sarebbe dipeso da lei, pedina fra due giocatori, il giudice Moscato e il suo difensore. Non le restava che attendere un verdetto, incisivo come una mannaia o esasperante come una prigione a vita. Bernardo doveva salvarsi e per questo si era piegata alla confessione, non certo per vigliacca paura; l’avessero pur straziata, scuoiata come un animale, non avrebbe parlato. Che almeno giovasse al fratello, la sua resa! Ci furono lunghi intervalli di veglia frammezzati a brevi pause di sonno finché il mattino portò la lucidità del risveglio e l’amarezza della riflessione. Aver ucciso per il diritto a essere felice e libera non aveva un senso, ora, come non avevano più senso il desiderio carnale che l’aveva spinta fra le braccia di Olimpio e l’amore sognato per Mario. No, non avevano avuto senso, come tante altre cose nella sua esistenza; quelle passioni avevano avuto solo il peso del momento e ora comprendeva di essersi persa in un delirio fatto di niente, pur sotto la spinta di bisogni e sofferenze. Anche nella eventualità di essere graziata le rimaneva una vita irrimediabilmente sciupata dal male fatto e ricevuto”: bravissima!!!