il cuore affamato delle ragazze, di Maria Rosa Cutrufelli, recensione di Ester Rizzo

«Malgrado i tanti studi e le tante ricerche, ancora oggi alla scrittrice (o allo scrittore) che si accinge a narrare una storia del passato, è necessaria molta pazienza e molta passione, per trovare le tracce concrete del tempo che fu».
Così scrive Maria Rosa Cutrufelli, nella breve nota, alla fine del libro Il cuore affamato delle ragazze ed. Mondadori. Un libro che, seppur nella forma del romanzo, ripercorre puntualmente gli anni del primo Novecento a New York dove le operaie, soprattutto del settore tessile, iniziarono a protestare per le dure condizioni lavorative; dove le emigrate affrontavano tra mille dubbi e speranze la nuova vita oltreoceano; dove nel grattacielo Asch Building si verificò l’incendio della Triangle Shirtwaist Company; dove le prime sindacaliste iniziarono a lottare per l’uguaglianza e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Nell’alternarsi di eventi e di luoghi, le due protagoniste, l’infermiera Etta e la cucitrice Tessie, diventano personagge che raccontano un mondo duro e spietato, una lotta per i diritti, per il pane e le rose. Raccontano la fatica delle conquiste, la zavorra di giudizi e pregiudizi, il mondo dei e delle migranti di quei tempi che approdavano a Ellis Island con il carico di timori ma anche di sogni stipati nelle vecchie valige di cartone.
Ma Etta e Tessie ci raccontano soprattutto la forza delle donne, la loro intelligenza, la loro vitalità, la loro solidarietà. «Donne femministe e indipendenti» che trovano anche il coraggio di accettare e dichiarare l’amore che nutrono l’una per l’altra.
La fluidità della scrittura spinge chi legge a immergersi totalmente in quelle atmosfere sapientemente ricreate con indubbia e puntuale ricerca storica.
Una narrazione che avvince e avvolge.
Pare di vederle quelle ragazze che si riunivano clandestinamente, che tentavano di ribaltare una realtà iniqua generata da sistematico sfruttamento.
Tra le pagine affiorano anche i volti e le personalità di Mary Dreyer e Alice Frances Keller colonne portanti del Movimento progressista di New York, di Pauline Newman alla direzione per ben 60 anni dell’Ilgwu (International Ladies Garment, Workers Union). E ancora la leader sindacale e suffragista Clara Lemlich che denunciava: «L’imprenditore vota, i padroni votano, i capisquadra votano, gli ispettori votano. Le ragazze che lavorano no» e Frances Perkins che, dopo il rogo del 25 marzo 1911, dedicò tutta la sua intera vita a far sì che simili tragedie non accadessero più.
Nella New York di quegli anni sfilano tra le pagine anche le donne della ricca e colta borghesia, le “ragazze non affamate” che però solidarizzavano con le operaie migranti. La banda del visone di Anne Morgan e delle altre che rifocillavano le ragazze durante gli scioperi, che non si fermavano neanche di fronte al gelo e alla neve copiosa che imbiancava Manhattan e provvedevano a pagare le spese legali quando, per avere creato disordini e tumulti, le operaie venivano caricate a mucchi dentro i furgoni e portate alla prigione di Le Tombs. Prigioni che poggiavano sopra uno stagno e dove nelle celle si stava con il fango e l’acqua alle caviglie. Furono rinchiuse in tante lì dentro, ma quando le liberavano una folla di donne le accoglieva: oltre alle compagne di lotta c’erano le suffragiste, le studenti dei college femminili, le donne della ricca borghesia e anche qualche suora missionaria. Un esercito di donne armate di coraggio e determinazione.
Le “ragazze affamate” condividevano stanze in affitto, piccole, umide e gelate d’inverno, roventi e soffocanti d’estate. Attraversavano le strade buie e pericolose del Lower East Side, cercavano di risparmiare il più possibile per mantenere l’indipendenza e l’autonomia faticosamente conquistata, si curavano a vicenda i lividi lasciati dai pestaggi senza farsi mai intimorire. Leggevano i quotidiani, leggevano saggi, romanzi e anche poesie. Cucivano gli abiti che indossavano destreggiandosi fra pezze di flanella e di cotone, imparavano alla svelta l’americano, sacrificavano il sonno e quando potevano, ogni tanto, si concedevano un teatro nella Bowery o una passeggiata per le avenue dalle vetrine scintillanti. Piccoli spazi per ritagliarsi brevi pause di serenità e di spensieratezza in quelle lunghe e faticose giornate.
Dopo l’incendio, di fronte allo scempio che il fuoco aveva fatto dei corpi di tante, dopo lo strazio del riconoscimento e dei funerali, dopo l’assoluzione dei proprietari nel processo-lampo, il cuore affamato delle ragazze, che pareva essersi fermato per il dolore e lo sgomento, riprese a battere ancora più velocemente.
Fu quel battito incessante che fece germogliare nuove leggi, nuove consapevolezze, nuova emancipazione, nuovi diritti.
Etta, dopo lo scorrere degli anni, nel «panorama della sua vecchiaia» accetta la luce della sua dolorosa memoria diventando consapevole del valore dei suoi ricordi personali e di quelli delle “ragazze affamate”.
Ricordi che devono essere tramandati.
Quel filo prezioso potrà essere srotolato anche in forma di fiaba: «C’era una volta un gruppo di ragazze coraggiose. Così coraggiose che quando penso a loro, non mi dispiace affatto di essere donna! Lavoravano tutte, ma in fabbrica erano come macchine senz’anima, i padroni se ne approfittavano».
E in quel racconto fiorisce anche la gemma delicata del sentimento d’amore che unì Etta e Tessie. Un sentimento che, travalicando il limite del tempo, apparteneva alla dimensione della bellezza della vita.
Un amore che nutrì per sempre il cuore di Etta anche se gli orizzonti inevitabilmente erano mutati.
Grazie al libro di Maria Rosa Cutrufelli “le ragazze affamate” ci parlano ancora e ci indicano la strada da continuare a percorrere in sorellanza.