il voto alle donne, una storia globale, di Laura Candiani

Il voto alle donne. Una storia globale

È da poco uscito un volume prezioso che aiuta a ricostruire il lungo e articolato processo portato avanti dalle donne per ottenere il suffragio universale, e lo fa attraverso i saggi di un gruppo di esperte che indagano su quanto avvenuto in vari Paesi del mondo, nei singoli continenti. Il libro, società editrice Il Mulino, è curato da Raffaella Baritono, docente di Storia e politica all’Università di Bologna, nonché direttrice del Centro dipartimentale di studi sugli Stati Uniti, e Vinzia Fiorino, docente di Storia contemporanea e Studi intersezionali di genere all’Università di Pisa, che ha contribuito a fondare il Centro interuniversitario di Storia Culturale. Entrambe hanno all’attivo importanti pubblicazioni, fra cui segnaliamo ― per la prima ― Eleanor Roosevelt. Una biografia politica (2021), ― per la seconda ― Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (2020), che trattano tematiche che ci stanno particolarmente a cuore.

Assai indovinata la copertina che ci introduce in modo spiritoso ma appropriato nel cuore del problema: riprende infatti una litografia di Daniel de Losques del 1910 in cui compare la giornalista e suffragista francese Marguerite Durand mentre utilizza il ciuffo di peli all’estremità della coda di una leonessa per incollare il manifesto che promuove la sua polemica candidatura alle elezioni politiche (ovviamente respinta). Il felino l’aiuta portando pure in bocca il secchiello con la colla. Era proprio una sua stravaganza girare per Parigi con l’animale addomesticato, chiamato “Tigre”, al guinzaglio. Facile spiegare il messaggio: ci volevano tanta forza e tanto coraggio per battersi, sapendo che il risultato non sarebbe stato quasi mai un successo.
Come tutti i volumi di saggistica anche questo ha una nutrita bibliografia e una necessaria introduzione delle curatrici che subito evidenziano quanto ogni risultato, anche il più piccolo nel più sperduto luogo al mondo, è comunque una vittoria collettiva, un enorme passo avanti per tutte le donne.

Nel trattare l’argomento nei Paesi africani è inevitabile il riferimento alla condizione di colonie che incide fortemente nel processo, di pari passo con il cammino tortuoso verso l’indipendenza. È il caso della Nigeria, affidata a Sara Panata, storica e studiosa dei fenomeni riguardanti il continente africano e dei movimenti femminili e femministi. Il traguardo è datato 7 luglio 1979, ma è preceduto da oltre un trentennio di lotte e rivendicazioni, che si sommano alla conquista della libertà dal dominio britannico, funestata tuttavia da tredici anni di regime militare, del tutto maschile naturalmente. Nonostante ciò una prima apertura era avvenuta nel 1976 con le elezioni locali, ma è molto interessante notare che si trattò di una “vittoria paradossale”, secondo le parole della storica Bibia Pavard, perché fu il frutto di un mero ragionamento, un tecnicismo burocratico, una concessione dall’alto che ben poco aveva a che vedere con le richieste delle donne. In questo panorama spiccano tre figure assai vivaci e significative che negli anni Cinquanta seppero collaborare efficacemente tra loro, tramite anche le rispettive organizzazioni:

Funmilayo Ransome Kuti

Funmilayo Ransome-Kuti, Margaret Ekpo, Elizabeth Adekogbe; certo è però che pure alla conferenza londinese per rivedere la Costituzione, su 90 delegati, le donne erano solo due, e che durante i primi confronti elettorali, parziali, del 1959, non ci fu neppure una eletta. Per l’elettorato femminile, come per i coloni in genere, le scuse saranno sempre le solite: il forte analfabetismo, le abitudini tribali che non contemplano la rappresentanza, la religione tradizionale, la mancanza di reddito proprio, la disabitudine all’autogoverno, le marcate differenze sociali e ambientali, ad esempio fra campagne sperdute e città, con tutti i pregiudizi e gli stereotipi razziali che si possono immaginare.

Per la Tunisia, affrontata da Leila El Houssi, il processo non è molto diverso, anche se, sottolinea l’autrice, ricercatrice di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università la Sapienza, qui «le rivendicazioni delle donne sono state […] peculiari e funzionali al processo di indipendenza del paese e hanno rappresentato un’importante sfida nell’era post-coloniale». Nel mondo arabo si parte addirittura dal 1923, con la nascita dell’Unione delle femministe egiziane, in Marocco con l’associazione Sorelle della purezza (1946), mentre in Tunisia, che era protettorato francese, un ruolo l’ha avuto l‘Union musulmane des femmes de Tunisie, nata nel 1936 con l’intento di promuovere l’istruzione delle ragazze. Va segnalata in questo caso la figura di un uomo, assai avanti per il suo tempo e per la situazione socio-politica; si tratta del sindacalista e riformatore Tahar Haddad, sincero sostenitore dell’emancipazione femminile, che si batté per il divorzio, contro le nozze forzate e la poligamia, per l’istruzione e l’uguale trattamento nella successione ereditaria, convinto che certi principi di giustizia ed equità si accordassero con gli insegnamenti coranici. Nel 1956 arrivò l’indipendenza e subito le donne ne trassero benefici per la lungimiranza del presidente Habib Bourguiba, che promosse riforme e rese il Paese moderno e “islamicamente laico”. Già dal 1957 le donne poterono eleggere ed essere elette nei Consigli municipali, mentre nel 1959 Radhia Haddad divenne la prima parlamentare tunisina.

Parlando del Sudafrica è inevitabile che si affronti, in parallelo, la questione dell’apartheid per cui, afferma l’autrice Arianna Lissoni, ricercatrice universitaria e responsabile fra l’altro dei programmi per il South African History Archive di Johannesburg, l’oppressione delle donne nere è stata triplice: per “razza”, classe e genere. Ben diversa la situazione delle bianche, appartenenti alla minoranza privilegiata, che ebbero il voto già nel 1930, ma solo per «”diluire” il voto per censo dei neri della provincia del Capo, dove vigeva un sistema di qualified franchise», del resto abolito entro gli anni Cinquanta. Molto complesso tutto il seguito dovuto a parziali riforme tendenti sempre a mantenere il potere nelle mani della popolazione bianca, a scapito di quelle Coloured e Indiana; si dovrà arrivare al 27 aprile 1994 per vedere le prime elezioni libere, interrazziali, democratiche e al 1996 per la nuova Costituzione che «vieta qualsiasi forma di discriminazione basata sul genere o sull’orientamento sessuale».

Per l’America Latina vanno tenuti in considerazione l’affrancamento dal dominio di Spagna e Portogallo e poi, sottolinea Maria Rosaria Stabili, già docente presso l’Università Roma Tre ed esperta di storia politica e sociale del Cono sudamericano, tre elementi: lo stretto legame famiglia-stato, la cattolicità, il peso della componente indigena. I casi trattati riguardano due realtà, ben diverse fra loro: il Cile, con una struttura statale unitaria, estrema periferia dell’ex vicereame del Perù, e il Messico, con una struttura federale, che mantenne la sua centralità e importanza anche dopo l’indipendenza. All’agognato traguardo arrivarono rispettivamente nel 1949 e nel 1953.

Ida Wells-Barnett, attivista afroamericana

La questione negli Usa, affrontata dalla curatrice del volume Baritono, risale a molto prima, addirittura se ne comincia a parlare a fine Settecento con petizioni popolari e accorate invocazioni: «Remember the Ladies» (Abigail Adams al marito, futuro Presidente), segno di una sensibilità nuova e moderna legata al tema imprescindibile della libertà. La richiesta qui si intreccia con quella pressante dell’abolizionismo e subisce continue variazioni nel tempo e nello spazio; il voto femminile fu ottenuto nel 1920, ma per gli afroamericani, donne e uomini, si dovrà attendere il Voting Rights Act del 1965.

Marzia Casolari, professoressa associata di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università di Torino, tratta il suffragio universale in India, dove arrivò a fine 1951, quando l’elettorato femminile era al 37,1 %; alle elezioni più recenti (2023-24), tuttavia, solo 74 candidate su 543 seggi disponibili sono state elette, nonostante l’alta percentuale di votanti donne.

Pandita Ramabai

Pandita Ramabai (1858-1922), con una biografia unica e affascinante, è una figura che spicca nel processo e smonta tre stereotipi sul tema, ovvero «che i primi sostenitori dei diritti delle donne in India fossero maschi; che le prime attiviste indiane si siano mosse sotto l’influenza delle donne inglesi e occidentali e infine che attiviste, riformatrici e riformatori sociali impegnati nel miglioramento della condizione femminile fossero esponenti delle classi medie e medio-alte educate all’occidentale».

Farrokhroo Parsa, ministra dell’Istruzione nel 1968

Se in Azerbaigian il traguardo fu raggiunto presto, nel 1918, in Iran il percorso è stato lento e difficoltoso: nel 1963 le donne, sopra i venti anni, ebbero il diritto di voto attivo e passivo, quando al potere era lo Shah Reza Pahlawi che aveva riformato la Costituzione e le leggi su pressioni statunitensi. Si trattò della cosiddetta “rivoluzione bianca”, in opposizione alle rivoluzioni “rosse” di matrice sovietica e ispirazione comunista che all’epoca della guerra fredda spaventavano gli Usa e l’Occidente. Ne parla nel volume Farian Sabahi, insegnante di Storia contemporanea del Medio Oriente all’Università dell’Insubria, che riporta fra l’altro alcuni passi della celebre intervista di Oriana Fallaci allo Shah. Cosa accadde dopo la cacciata dello Shah, la “rivoluzione islamica” e il referendum del 1979 è risaputo; una delle vittime fu la luminosa figura di Farrokhru Parsa (1922-1980), medica, attivista, prima donna a ricoprire la carica di ministra; persino la sua morte è memorabile: la corda per impiccarla si ruppe e lei rimase viva, segno di palese innocenza secondo la fede islamica, eppure fu deciso di fucilarla. Afferma giustamente Sabahi, esercitare il diritto di voto non basta, quando tanti altri diritti sono negati, quando le limitazioni sono infinite, quando le donne sono solo il 17% della forza lavoro e in molti casi «valgono la metà di fronte alla legge»: una moglie può espatriare solo con il consenso del marito che esercita ancora oggi la possibilità di ripudiarla.

Pochi anni dopo la proclamazione della repubblica turca le donne poterono votare alle elezioni amministrative; era il 1930; cinque anni più tardi furono elette 18 deputate. Si trattava del frutto della democratizzazione e modernizzazione in atto, volute dal Partito Repubblicano del popolo fondato da Mustafà Kemal Atatürk e dall’élite intellettuale maschile.

Nezihe Muhittino Muhiddin

Tuttavia le donne si erano già mosse autonomamente, spiega Lea Nocera, docente di Lingua e letteratura turca all’Università di Napoli L’Orientale, almeno dal 1924, grazie all’Unione delle donne turche fondata da Nezihe Muhittin (1889-1958).
La conquista del voto comunque non volle dire piena partecipazione femminile sia per il crescente autoritarismo sia per le tante barriere poste al coinvolgimento delle donne nella vita politica; nel Paese permangono situazioni di disequilibrio e discriminazione che tengono vincolate le donne allo spazio familiare, sacrificando spesso le relazioni pubbliche, il lavoro, la carriera politica. Basta ricordare che il governo aveva siglato e ratificato la Convenzione di Istanbul nel 2012, ma nel 2021 «si è ritirato perché ritenuta in contraddizione con i valori tradizionali della famiglia dello stato turco».

In Francia e in Italia, riferisce Fiorino, l’altra curatrice dell’opera, il voto alle donne arrivò a breve distanza, 1945 e 1946, ma ben diverso il divario con quello maschile, giunto in Francia fino dal 1848, in Italia dal 1919, per vederlo poi abolito con il regime fascista. Un ostacolo al suffragio universale, al quale spesso non si pensa, è «il rapporto tra la difesa armata della patria e la cittadinanza», visto che alle donne a lungo è stato precluso il servizio militare, quindi l’eventuale esercizio della guerra, quasi fossero cittadine di minore importanza, ancora soggette per “loro stessa natura” all’autorità del pater familias.

Gualberta Alaide Beccari, lapide nella Certosa di Bologna

In Francia il percorso comunque fu più intenso e iniziò assai prima, fino dai tempi di Olympe de Gouges, mentre in Italia fu più lento, e si dovettero attendere Anna Maria Mozzoni, Gualberta Beccari, Anna Kuliscioff; la nota Petizione, firmata anche da Maria Montessori, risale al 1906. La svolta si ebbe con la fine della Seconda guerra mondiale e il ritorno alla democrazia, con la significativa partecipazione femminile alla Resistenza, non sempre tuttavia salutata con entusiasmo, visto che, finita quell’esperienza esaltante, le donne furono sovente «sollecitate a rientrare nei binari più tradizionali dei ruoli femminili». Il voto, poi, ancora una volta, non fu risolutivo, basti pensare alle disuguaglianze rimaste fino al nuovo codice di famiglia del 1975 e all’impedimento di accedere alla carriera giudiziaria fino alla legge del 1963, ottenuta grazie alla determinazione della giurista Rosa Oliva, cara amica di Toponomastica femminile.

In Germania il suffragio universale è una tappa fondamentale alla fine della Grande guerra, contestualmente al crollo dell’impero, e l’autrice Kerstin Wolff, docente all’Università di Kassel, fa una distinzione assai interessante fra nazioni vecchie, più lente nel “concedere” il voto alle donne, e nazioni giovani, come la Finlandia e la Norvegia, ben più veloci, d’altra parte rispetto alle altre potenze europee di antica tradizione, la Germania era diventata impero “solo” nel 1871. Ci limitiamo allora a fare un elenco di nomi significativi di suffragiste, pur poco note in Italia: Louise Otto, Hedwig Dohm, Anita Augspurg, Marie Juchacz, Wally Zepler, Clara Zetkin, la più famosa, protagoniste di un intenso confronto fra posizioni socialiste e filoproletarie e posizioni borghesi e conservatrici.

Giulia Guazzaloca, ordinaria di Storia contemporanea all’Università di Bologna, affrontando la situazione della Gran Bretagna, si rifà in primo luogo a Mary Wollstonecraft, una vera pioniera che già scriveva di temi sensibili nel 1792. Ma la vera contraddizione, emersa soprattutto durante il lungo regno di Vittoria, era che il Paese con il suo immenso impero coloniale era governato da una donna, pur di per sé contraria al voto femminile; assurdo dunque che le donne non votassero. Del resto proprio il suo esempio dimostrava che si poteva essere madri e mogli amorevoli, ma anche leader internazionali e sapienti politiche. Insieme a numerose voci e petizioni di suffragiste, compreso il contributo di un uomo lungimirante come John Stuart Mill, colpisce il ruolo innovativo assegnato all’istruzione superiore e alle professioni mediche, grazie alla nascita della London School of Medicine for Women (1874) e alle scuole per infermiere diplomate create da Florence Nightingale.

Emily Wilding Davison

Il dibattito era vivace, specie intorno ai temi dell’identità femminile e dell’esercizio della proprietà; una svolta arrivò nel 1894 con il Local Government Act che dava alle donne il diritto di voto attivo e passivo nei distretti locali, ma si dovette arrivare a manifestazioni clamorose e a gesti eclatanti, come la morte di Emily Davison, nel 1913, finita sotto gli zoccoli del cavallo del re. La fine della Grande Guerra creerà i presupposti per una ampia serie di riforme, di cui il voto sarà solo una tappa, prima per le ultratrentenni nel 1918, poi per tutte le maggiorenni dal 1928.

In Russia il suffragio universale, risalente al 1917, «è il prodotto del processo rivoluzionario iniziato con l’abbattimento dello zarismo in febbraio e culminato con la presa del potere da parte dei bolscevichi in ottobre», spiega Giovanna Cigliano, ordinaria di Storia contemporanea presso il Dsu dell’Università di Napoli, che fa un dettagliato resoconto dei lavori che precedettero l’atto risolutivo, fra speranze e delusioni.

Un caso unico è poi rappresentato dalla Finlandia, già Gran Ducato dotato di ampia autonomia nell’impero zarista, dove il voto femminile anticipa ogni altro Paese europeo, nel 1906, fortunata combinazione di eventi, sia per il ruolo pubblico delle donne riconosciuto da tempo sia per la coalizione fra nazionalisti, femministe, socialisti nel condividere le medesime rivendicazioni relative pure all’autonomia e all’autodeterminazione.

Nel recensire un volume così denso di informazioni su una rivista non specialistica come Vitamine vaganti abbiamo dovuto operare drastici tagli e ci siamo attenute a una estrema sintesi dei fatti storici e di tutti i complessi processi che hanno preceduto e seguito la conquista del voto femminile, che non è mai scontata, e va sostenuta con tenacia, quando può essere minacciata dal sistema autoritario e patriarcale. Ogni saggio meriterebbe di scendere nei dettagli, ma è opportuno che lettrici e lettori si rivolgano direttamente al testo per approfondire le proprie conoscenze. Ci scusiamo con le autrici e rinnoviamo il nostro apprezzamento per il bellissimo lavoro svolto, utile a più livelli e ricco di spunti suggestivi, indispensabile presenza nelle biblioteche pubbliche e private di chi voglia seguire questo affascinante viaggio che ci riguarda tutte.