volevo un gatto nero, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Volevo un gatto nero

Carissime lettrici e carissimi lettori,
è ancora agosto. E lo sarà per tutta la prossima settimana per finire, quasi in sordina, domenica e dare spazio, con la forza del giorno iniziale della settimana, al nuovo mese, a settembre dedicato, secondo il pensiero gucciniano, al «ripensamento sugli anni e sull’età», metafora della vita attraverso l’anno solare.
Siamo ancora ad agosto, seppure il canonico periodo di ferie, più o meno onoranti l’imperatore romano, finirà tra oggi e domani. Adesso si può raccontare… (l’assurdo è che c’è chi già comincia a organizzare e, quindi, a chiedere cosa si farà a.…Capodanno… ahinoi!)
Siamo ancora ad agosto e, dunque, abbiamo bisogno di nuovo di leggerezza, di pensieri meno amari, anche se la realtà che ci circonda non ci racconta questo: ci mostra guerre, fame, disuguaglianze e tante prepotenze. Queste, fatte dal potere dei potenti, forse sono la vera causa di tutto.

Parliamo di gatti. Non che questi esserini a quattro zampe non siano da prendere sul serio, anzi, hanno tanto da raccontarci. E lo vedremo. Soprattutto qui parliamo di gatti neri! Che di significati nella storia condivisa con noi ne portano tanti (c’è da dire sulla schiena!). A cominciare da quella dea egizia raffigurata con il corpo di una donna, ma con la testa di un gatto (o gatta!) nerissima. Si chiamava Bastet. «Nel vasto e multiforme pantheon egiziano Bastet è la dea gatta, rappresentata come donna dalla testa di gatto o come una gatta nera. Il suo luogo di culto più importante era la città di Per Bast, che i Greci chiamavano Bubastis, nei pressi dei delta del Nilo, a circa 80 km a nord-est del Cairo, dove furono ritrovati molti templi a lei dedicati.
Dalla VI dinastia il culto si diffuse nell’Egitto, da locale che era inizialmente, e sotto il regno di Pepi II si immaginava Bastet come l’equivalente della Hathor di Dendera; Bastet aveva il potere di stimolare l’amore e la sessualità, e questa è una delle ragioni per cui il suo culto fu così popolare. Il giorno dedicato alla dea Bastet, giorno di festa dove la gioia giungeva all’estasi, era il 31 ottobre. Si beveva e si ballava a dismisura, e i bambini non potevano partecipare. Sul Nilo galleggiavano chiatte piene di donne, fiori e vino. Si dice che si trattasse di riti sensuali, pieni di musica e danze. Erodoto così racconta: “Arrivano in barca, uomini e donne assieme, in gran numero su ogni imbarcazione; mentre camminano molte donne fanno musica con dei sonagli, degli uomini suonano il flauto, mentre altri cantano e battono le mani. Quando incontrano una città lungo il fiume portano la barca a riva, ed alcune donne continuano a suonare, come ho detto prima, mentre altre lanciano insulti alle donne del luogo e iniziano a ballare agitando i loro abiti in tutti i sensi. All’arrivo celebrano la festa con dei sacrifici, e si consuma in questa occasione più vino che in tutto il resto dell’anno”… Bastet è indicata figlia di Ra, oltre che come uno dei suoi occhi, ossia colei che veniva inviata per annientare i nemici dell’Egitto e dei suoi dei. È una dea dal duplice aspetto, pacifico e terribile: nella sua forma di gatta o di donna gatto è la dea benevola, protettrice dell’umanità, dea della gioia e delle partorienti; nel suo aspetto feroce è nota per le sue collere, rappresentata con testa leonina, ed identificata con Sekhmet, la Possente, dea della guerra (oltre che della medicina). Come tutti i felini è attraente e pericolosa assieme, dolce e crudele: è il simbolo della femminilità, la protettrice del focolare e della maternità, ma è anche pronta a lottare quotidianamente col serpente Apophis, colui che contrasta la corsa della barca solare e delle forze benigne della creazione. In una delle tombe della valle delle regine è raffigurata portando dei coltelli per proteggere il figlio del re, e si dice che abbia partorito ed allattato il faraone, del quale sarebbe la dea protettrice».

Per celebrare il felino e chi lo ha amato nei secoli, si è creata anche un’Accademia. L’Accademia dei Gatti Magici oggi è sopra Firenze, sulle belle colline di Fiesole. Era nata a Roma, a metà degli anni ’80 del secolo scorso, dall’amore per i gatti di una coppia colta e raffinata: Marina Alberghini Pacini e Giordano Alberghini. Tra gli e le associate personaggi storici dell’arte e della cultura, primi fra tutti Dante e Leonardo da Vinci, da Charles Baudelaire a Guillaume Apollinaire, fino al sarto Giorgio Armani che non disegna un modello senza la vicinanza del suo gatto. Questi tra i quattromila e passa nomi “storici” iscritti all’’Accademia per la loro famosa devozione e l’amore indiscusso verso il nostro sinuoso quattrozampe.
Chiaramente nata per seguire le “impronte” feline nell’arte e nella cultura del mondo, partendo soprattutto dalla religione, l’Accademia, votata a scoprire il “maneggevole” felino mentre è rappresentato anche nei quadri dei più celebri pittori e pittrici e nei monumenti più antichi, non poteva che iniziare da lui: il Gatto nero.

All’ombra del gatto nero (Mursia editore), come detta il titolo di un libro della stessa Marina Alberghini, si è celebrata la sua festa in questo periodo di metà agosto. Esattamente il 17 del mese, domenica scorsa, il particolare protagonista di innumerevoli storie tra magia, religione e realtà, è stato il primo attore assoluto della Giornata mondiale del gatto nero. Questa è celebrata come segno di unione di tutte le interpretazioni. Nei Paesi anglofoni vedere passare un gatto dal manto nero è auspicio di buone notizie. Lo stesso aspetto benaugurante si nota in Francia dove — racconta Alberghini — si vendono cartoline con l’immagine del gatto nero e con scritto un augurio di “chance”, di opportunità da cogliere al volo!
«La figura del gatto nero come portatore di sfortuna venne cementata ulteriormente da varie leggende e racconti del folklore europeo, che narravano di incontri con questi felini durante la notte, considerati presagi di eventi nefasti. La loro presenza in storie e leggende contribuì a consolidare la loro immagine come simboli di male e sventura. Queste credenze si diffusero e si evolsero nel tempo, influenzando la letteratura, il folklore e le tradizioni di diverse culture. Ad esempio, nella cultura marinara, i gatti neri erano invece considerati portatori di buona fortuna, specialmente se a bordo di navi.
Con il passare dei secoli, l’iconografia dei gatti neri divenne particolarmente prominente durante la festività di Halloween, dove sono diventati simboli iconici associati al mistero e al soprannaturale. Nonostante le origini antiche delle superstizioni sui gatti neri, la loro percezione sta lentamente cambiando, grazie alla maggiore consapevolezza e alle campagne volte a sfatare i miti che li circondano, permettendo così a questi eleganti felini di essere apprezzati per la loro vera natura. La storia della superstizione del gatto nero è quindi un’esemplificazione di come le credenze e le narrazioni culturali possano plasmare profondamente la percezione degli animali nella società, riflettendo i cambiamenti nei valori, nelle paure e nelle aspirazioni umane attraverso i secoli. La storia della superstizione del gatto nero si intreccia con la storia umana, riflettendo le complesse relazioni tra uomini e animali, nonché le varie interpretazioni culturali. Con l’avvento del Medioevo in Europa, la percezione dei gatti neri subì un drastico cambiamento. La paura dell’ignoto, combinata con l’ascesa del Cristianesimo e la diminuzione del politeismo, portò a una demonizzazione di ciò che una volta era sacro. I gatti neri, con il loro aspetto notturno e i loro comportamenti enigmatici, divennero simboli di sfortuna, stregoneria e associazioni oscure. Durante il periodo della caccia alle streghe, soprattutto tra il XV e il XVII secolo, i gatti neri furono ulteriormente demonizzati e spesso associati alle streghe come loro famigli o compagni. Si credeva che le streghe potessero trasformarsi in gatti neri o che questi animali fossero doni dal diavolo stesso. Questa associazione portò a un aumento della superstizione e, in alcuni casi, alla persecuzione sia delle streghe presunte sia dei gatti neri. Queste origini della superstizione del gatto nero dimostrano come le credenze e le paure culturali possano influenzare profondamente la percezione degli animali. Nei secoli successivi, queste narrazioni si sono evolute e diffuse, integrandosi in varie tradizioni e leggende in tutto il mondo» (Il pensiero mediterraneo).

Nere, proprio nel senso di brutte, sono le notizie che ci arrivano, nonostante l’estate, ignorando il diritto al riposo che non è di tutti e tutte, ma è diventato un privilegio che dobbiamo capire di avere. Triste è la storia di una ragazzina che si chiamava Marah Abu Zhuri. Aveva 19 anni. Marah ha finito il suo viaggio, su questa terra, che non l’ha amata, all’ospedale di Pisa, lontana da Gaza, vittima come tanti altri ragazzi e ragazze come lei o più piccole/i e, forse, come lei desiderose/i di mangiare un hamburger e di bere una bibita che a Gaza riesce a costare anche 50 dollari! Marah è morta perché denutrita ed è crudele, come fosse una seconda morte, tentare un’altra diagnosi, quella di leucemia. Non toglierebbe nulla alla debolezza del corpo della ragazza che secondo i medici pisani non sarebbe stata diagnosticata. Anna Foa, autorevole voce su Israele, di religione ebraica, non certamente antisemita, si domanda e scrive: «I negazionisti della Shoah, tra le loro mille argomentazioni, dicevano che nei campi nazisti i deportati erano morti di tifo e di altre malattie, non assassinati. Dispiace vedere che l’ambasciata israeliana riprende questo genere di argomentazioni. Marah, a detta dei medici di Pisa, non aveva affatto la leucemia. Ma anche se l’avesse avuta, credete che a un malato, a una persona con fragilità, faccia bene essere affamata? Di chi è in quel caso la responsabilità della loro morte?».

Un po’, o un bel po’, di amarezza lo proviamo per lo sgombero, senza se e senza ma, del centro sociale Leoncavallo a Milano. Non per lo stesso, ma perché altri se ne aspetterebbero, con uguale fermezza, anche a Roma.
L’amarezza cresce, poi, per le morti con Taser, la pistola elettronica in dotazione alle forze dell’ordine. Due morti in due giorni significa pur qualcosa. Una risposta potrebbe essere legata ad un voltaggio troppo alto che causerebbe problemi cardiaci. Una falla nelle decisioni del Decreto sicurezza che dovrebbe far riflettere.

Troppo spesso le donne afgane vengono dimenticate, come sentite troppo lontane. Allora ricordiamole con una poesia scritta da una donna, nata in Afghanistan e uccisa a Quetta, in Pakistan: «Autorevole, rivoluzionaria, indomata, e poeta. Lei è Meena Kamal. Nasce a Kabul nel 1957. Meena ha solo 20 anni quando, nel 1977 fonda Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan). Quattro anni dopo lancia la rivista bilingue Payam-e-Zan (Il messaggio delle donne). Organizza le scuole Watan per bambini/e rifugiati/e, un ospedale e anche centri di artigianato per donne rifugiate in Pakistan. Alla fine del 1981, su invito del governo francese, Meena rappresenta il movimento afghano di resistenza al Congresso del Partito Socialista Francese. La sua attività instancabile diventa trascinante per il suo popolo e pericolosa per sovietici e fondamentalisti. Viene uccisa da agenti del Khad (il braccio afghano del Kgb) a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987. Uccisa perché “parlava troppo”, dissero allora. Uccisa perché faceva paura, diciamo oggi. La celebriamo con le parole della sua poesia più nota». (Labodif)

Mai tornerò indietro

Sono la donna che si è destata,
mi sono alzata e dalle ceneri dei miei bambini bruciati sono diventata una tempesta.
Mi son destata dai rivoli di sangue dei miei fratelli,
l’ira del mio paese me ne ha dato la forza,
i miei villaggi distrutti, bruciati, mi hanno riempita di odio per il nemico.
Non pensare più a me come debole e inetta, o compatriota,
sono la donna che si è destata
ho trovato la mia strada e mai tornerò indietro.
Ho spezzato i ceppi che avevo ai piedi,
ho aperto le porte chiuse dell’ignoranza,
ho detto addio a tutti i bracciali d’oro.
O compatriota, o fratello mio, non sono più ciò che ero,
sono la donna che si è destata,
ho trovato la mia strada e mai tornerò indietro.
Con la mia coscienza sveglia ho visto tutto,
pur nella totale oscurità che avvolge il mio Paese:
nelle mie orecchie risuonano ancora le urla notturne delle madri cui sono stati strappati i figli.
Ho visto bambini senza casa che vagavano smarriti, a piedi nudi,
ho visto spose vestite a lutto con le mani ancora tinte di henné,
ho visto gigantesche mura di prigioni inghiottire la libertà nei loro stomaci voraci.
Sono rinata tra epopee di resistenza e di coraggio,
ho appreso la canzone della libertà dall’ultimo respiro, dai flutti di sangue e dalla vittoria.
O compatriota, o fratello, non pensare più a me come debole e inetta,
con tutta la mia forza cammino con te sul sentiero che porta alla liberazione della mia terra.
La mia voce si è unita a quella di migliaia di donne insorte,
i miei pugni sono serrati insieme a quelli di migliaia di compatrioti,
insieme a te ho imboccato la via che conduce al mio Paese,
per spezzare tutta questa sofferenza, e le catene della schiavitù.
O compatriota, o fratello, non sono più ciò che ero.
Sono la donna che si è destata,
ho trovato la mia strada e mai tornerò indietro.

Meena Kamal

Per Gaza una poesia di Alì Abukhattab. Poeta e critico letterario per l’infanzia e cofondatore di Utopia, il collettivo che riunisce decine di scrittori e scrittrici provenienti da Gaza. Fuggito in Egitto per le minacce subite da parte di Hamas. Ora è rifugiato in Norvegia grazie all’ International Cities of Refugee Network

Il vuoto

Al vento la sua logica…
E tu cammini contro la salinità del tempo
L’odore del luogo ti chiama
Intrecci la tua morte con mani di buchi
Ti aggrappi al sibilo del vento
Bruci la tua essenza nel fuoco delle schegge
Inventi i tuoi rituali mischiando lacrime
alla schiuma degli spettri
Dall’abisso sorge la tua leggenda calpestata
Sali
Sali
Sali
Non fermarti sul ciglio dell’inno…
Li vedo avvicinarsi alla tua eco
Li vedo insinuarsi dalle membra della tosse
Fuggi
Segui la profezia del vento

Alì Abukhattab (1976)

Però ritorniamo alla giocosità del titolo ed ecco il link della canzone cantata all’11esima edizione dello Zecchino d’oro dal Piccolo Coro dell’Antoniano di Bologna .

Buona lettura a tutte e tutti e buon rientro