se il linguaggio cambia l’ordine del mondo, di Margherita Sabrina Perra ed Elisabetta Ruspini

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Il linguaggio costituisce un elemento centrale nella definizione delle identità individuali e collettive. Una consapevolezza che emerge dall’esperienza biografica, ma anche dalla cultura popolare, dalla letteratura, dalla musica. Come dimenticare la narrazione fatta da Elias Canetti[1] sul modo un cui la lingua materna ha intrecciato le biografie dell’autore e di sua madre, non solo nella vita quotidianamente condivisa, ma anche nei ricordi e nelle esperienze dell’intera vita dello scrittore?

Il linguaggio, formato da complessi codici di comunicazione (segni verbali, diretti e indiretti, e non verbali – ad esempio gesti, espressioni del volto, posture, movimenti del corpo, abbigliamento  – come Erving Goffman[2] insegna, tutti di importanza strategica) consente di comunicare con noi stessi/e con gli/le altri/e, al contempo, di definire la realtà, nominandola, raccontandola, descrivendola e interpretandola. In ogni tempo, in ogni luogo, si impiegano e si intrecciano linguaggi diversi che, in forma scritta, orale, grafica, per immagini e suoni, non solo simboleggiano e rappresentano la realtà sociale, ma costruiscono gli elementi materiali e immateriali della cultura, oltre che i sentieri delle realtà possibili e di quelle futuribili.

Il linguaggio è poi, come Peter e Brigitte Berger sostengono[3], l’istituzione sociale per eccellenza, costituendo un modello regolatore che la società impone alle condotte individuali, un codice di comportamento sul quale si radicano le altre istituzioni.

Queste considerazioni sono condivise anche nella cultura popolare. Un vecchio adagio sentenziava “dimmi come parli e ti dirò chi sei” lasciando intendere che il linguaggio segnala le appartenenze di ciascuno: il genere, la classe sociale, il gruppo etnico, ma anche l’esperienza biografica sono segnalate dai nostri usi linguistici. Nella vita quotidiana, i linguaggi segnano i confini e le similitudini, ma ancora di più le distinzioni sociali; inoltre, i linguaggi rafforzano le disuguaglianze e le reificano descrivendo le realtà sociali come naturali, immanenti e immutabili. Gli esempi di questi processi sono tanti: nelle relazioni familiari i linguaggi esprimono l’intimità, l’amore, ma anche i conflitti e le disparità; nei gruppi dei pari, i linguaggi sono convenzioni che definiscono l’appartenenza, ma troppo spesso anche i processi di esclusione dei non-membri; nelle organizzazioni sociali i linguaggi possono ridisegnare le mappe dei rapporti di dominio, ma anche edificare barriere insormontabili; i linguaggi del potere politico definiscono la cittadinanza, e con essa chi non ha o non può chiedere diritti, e più di tutto le modalità che conducono tanti e tante ad essere stranieri/e ogni giorno. Come nel passato, e forse mai prima d’ora, gli usi linguistici non solo definiscono le comunità dei/delle parlanti, ma sono considerati gli strumenti attraverso i quali queste possono essere estese e ridefinite.

L’incessante capacità creatrice riconosciuta al linguaggio ha fatto e continua a fare di quest’ultimo un medium del potere (individuale, di gruppo, istituzionale) e per questo non esente dal conflitto e dalla lotta per il dominio. Nella contemporaneità, le capacità comunicative sono considerate distintive delle leadership politiche, culturali e religiose. Se in passato era la retorica a rappresentare la modalità espressiva privilegiata di questi processi, negli ultimi anni, si apprezza l’uso dei linguaggi finalizzati al rafforzamento delle gerarchie negli ordinamenti sociali, prime fra tutte quelle che originano dalle differenze tra corpi sessualmente definiti. Le profonde – benché parziali – trasformazioni delle rappresentazioni sociali del genere e dell’orientamento sessuale avvenute negli ultimi decenni si accompagnano a modesti cambiamenti degli usi linguistici del tutto inadeguati e non ancora stabilizzati sia sul piano pubblico-istituzionale, sia su quello individuale.

Non solo. La maggiore visibilità di soggettività considerate non conformi alle norme sociali prevalenti è ritenuta, in tante società, un pericoloso attacco ai sistemi di genere socialmente preferiti ed incoraggiati. Per queste ragioni, la presenza nello spazio pubblico delle donne e dei soggetti che esprimono identità di genere non egemoni deve essere rallentata, ostacolata e, in primo luogo, occultata.

Questo processo di negazione si manifesta anche nella scelta di linguaggi declinati persistentemente al maschile e che simboleggiano gerarchie sociali fortemente patriarcali. A tale proposito, negli ultimi tempi, anche in Italia, sembra in corso qualche mutamento. È caso della lettera inviata, in occasione dello scorso 8 marzo, a tutti i Deputati e le Deputate, dalla Presidente della Camera, che esorta all’uso dei femminili nell’indicazione dei ruoli politici, degli incarichi amministrativi e istituzionali. Si tratta evidentemente di un gesto di grande valenza simbolica, soprattutto perché interviene a spezzare il legame tra linguaggio e sistemi simbolici condivisi dai/delle parlanti rispetto ai ruoli attribuiti al maschile e al femminile. Il riconoscimento della presenza delle donne nelle istituzioni è il primo passo verso la de-costruzione delle rappresentazioni culturali che ancora riguardano il binomio genere-potere.

Seppure la deriva culturalista e il linguistic turn, in particolare, abbiano rischiato di fare credere che le disuguaglianze fossero oramai soltanto un problema linguistico, vi è oggi una maggiore consapevolezza del fatto che queste persistono in ragione dell’iniqua distribuzione delle risorse materiali e immateriali e del potere che ad esse viene attribuito. La dimensione simbolica delle disuguaglianze non deve essere trascurata. Anche se vi è una maggiore sensibilità rispetto all’uso sessista del linguaggio, la sua portata è ancora sottovalutata perché non si mettono in discussione le visioni del mondo che queste nascondono rispetto alla mascolinità e alla femminilità, oltre che a identità di genere e orientamenti sessuali. Alcuni tra questi sono definiti sovvertitori degli ordinamenti sociali considerati legittimi perché costruiti su differenze ‘naturali’ o, più precisamente, incorporate. Per questo tutti i tentativi di costruire e diffondere nuove culture di genere, anche mediante i linguaggi, sono osteggiate mediante la mistificazione del potere del linguaggio nella costruzione di rappresentazioni sociali, dei sistemi simbolici e degli universali culturali.

Si parla così del linguaggio come di un fattore eversivo se usato per cambiare ‘l’ordine naturale del mondo’ e finalizzato alla costruzione di società ‘non umane’. A tale proposito si può ricordare che già dalla fine degli anni ’90, il Vaticano ha intrapreso una campagna di discredito nei confronti degli studi di genere. A detta delle gerarchie cattoliche che, coadiuvate da alcune decine di “esperti”, hanno pubblicato nel 2003 il Lexicon dei termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, tali ricerche opererebbero attraverso una “manipolazione linguistica” per sovvertire “l’alfabeto dell’umano” e produrre la “colonizzazione della natura umana”[4]. Di recente, come già segnalato su questa rivista da un articolo di Barbara Poggio, queste posizioni si stanno ampliando in vere e proprie forme di controllo e censura rispetto ad una fantomatica “ideologia del genere” la cui unica colpa sembra essere quella di volere de-costruire i tanti pregiudizi sui generi da cui originano fenomeni di violenza, bullismo tra i/le più giovani, linguaggi e comportamenti omofobici/transfobici. Al di là delle motivazioni religiose che hanno innescato l’allarme di una parte del mondo cattolico e dell’associazionismo ad esso legato – soggetti, ai quali, come tutti, deve essere riconosciuta la piena libertà di espressione – questi comportamenti assumono i contorni sempre più nitidi di una vera e propria crociata. Essa ci appare ingiustificata e scarsamente comprensibile soprattutto perché, quali che siano i nobili valori che la ispirano, produce e produrrà il rafforzamento di disuguaglianze sociali basate sulle appartenenze di genere e di orientamento sessuale che impediranno a uomini e donne di esprimere pienamente le proprie soggettività.

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