accadde…oggi: nel 1681 nasce Giulia Lama, di Roberto Camatti

L’opera di Giulia Lama (Venezia, 1681-1747) è quasi del tutto sconosciuta alle fonti. Solo Anton Maria Zanetti integrando le Ricche miniere di Marco Boschini con la Descrizione delle pubbliche pitture di Venezia colla aggiunta di tutte le opere, che uscirono dal 1674 sino al presente 1733 ne cita pochi dipinti (Zanetti, 1733, p. 173, p. 189, p.224, p.258, p. 381):
la pala per l’altar maggiore di Santa Maria Formosa raffigurante La Vergine con il Bambino venerata da San Pietro apostolo e da San Magno vescovo alla presenza della personificazione di Venezia, una pala con il Cristo Crocifisso dipinta per un altare della chiesa di San Vidal, inoltre una pala con Sant’Antonio di Padova nell’atto di ricevere il Bambino nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli, un Episodio della vita di San Teodoro nella Scuola omonima e un Cristo condotto al monte Calvario nella chiesa del Cristo miracoloso dell’Isola di Poveglia, tutti e tre quest’ultimi perduti.
A proposito della Crocifissione di San Vidal, già nel Settecento, Cochin (III, 1758, p. 34) e Richard (1770, p. 317) la ritengono un dipinto mal disegnato, non apprezzando il violento e deformante accento patetico dell’opera. Lo Zanetti riserva alla pittrice una sorte peggiore nel volume Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri, edito nel 1771, non nominandola neppure, proprio come se non fosse mai esistita. E’ singolare, inoltre, che il nome di Giulia Lama non compaia mai, a differenza di quello di Rosalba Carriera (vedi per approfondimento l’articolo Le pittrici nella Venezia del Settecento: Rosalba Carriera, Felicita Sartori e le altre), negli elenchi della Fraglia dei pittori veneziani. E’ come se ufficialmente lei non esistesse o venisse considerata nient’altro che una dilettante e quindi non fosse tenuta a pagare la ‘tansa’, che ogni iscritto alla corporazione doveva versare alla Milizia da Mar.
L’abate Antonio Conti nella lettera indirizzata il 1 marzo 1728 a Madame de Caylus, ci tratteggia un ritratto della Lama ormai prossima alla cinquantina:
(Conti, 2003, p. 183).
Giulia, studiosa di matematica da giovane, merlettaia per guadagnarsi da vivere, è poetessa oltre che pittrice. In un’antologia di Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo, raccolti da Luisa Bergalli, pubblicata a Venezia nel 1726, figurano cinque poesie della Lama, due canzoni di tipologia petrarchesca e tre sonetti (Componimenti…, 1726, pp. 227-233), che rivelano la sua raffinata cultura letteraria e lasciano trasparire la sua acuta sensibilità.
La Lama canta con i seguenti versi un suo amore tradito, che le provoca angoscia e tormentosi ricordi, rivelandosi una donna appassionata e viva, un’anima sfortunata e nobile.
“E empito ho il Ciel di dolorosi stridi;
Né del destin, né del desio le tempre
Mutansi mai; che spiaggie, e valli, e fiumi,
E monti, e colli ’l sanno, e selve, e dumi
Quanto occulta gridai e piansi, ed arsi:
Ma mentre cauta ad altri non increbbi
di me pietà non ebbi…
Così a languir da prima, io m’avezzai,
E a soffrire l’amorose tempre;
Che non chiesi mercé con sguardi, o voce;
Ed anzi che parlar io piansi sempre,
Onde mia piaga non risana mai”
Inoltre nella summenzionata antologia si trova una breve ma interessante presentazione della Bergalli, la prima fra le rarissime testimonianze a stampa che la riguardino. Giulia è detta:
(Componimenti…, 1726, p. 283).
La Lama giunse a svolgere l’attività di pittrice seguendo l’esempio del padre Agostino, discepolo di Pietro Vecchia, che, stando all’erudito settecentesco Nadal Melchiori, “faceva opere grandiose d’Historia, Battaglie e Paesi di buon gusto sulla maniera di Matteo Stom” (Melchiori, 1968, p. 124). Purtroppo nessun lavoro di Agostino Lama ci è pervenuto o è stato identificato nei molti dipinti ancora anonimi della sua epoca.
Il fatto che Giulia fosse figlia d’arte può spiegare non solo la sua scelta professionale, ma anche perché si sia data alla pittura di ‘storia’, che presupponeva lo studio del nudo frequentando l’ambiente promiscuo di una scuola o di un atelier, probabilmente quello del padre o quello di Nicolò Cassana, suo padrino di battesimo.
Dopo un primo periodo dedicato agli studi, la Lama, sulla trentina, s’accostò a Giovanni Battista Piazzetta tornato a Venezia da Bologna verso il 1711. I due ritratti che il Piazzetta le ha dedicato, uno conservato alla Fundación Colección Thyssen – Bornemisza di Madrid e l’altro esposto al Castello Sforzesco di Milano, sono una conferma della frequentazione reciproca, se non anche di un rapporto d’amicizia.
Il Ritratto del procuratore di San Marco Pietro Grimani, dipinto perduto ma ricordato da un’incisione di Francesco Zucchi risalente all’incirca al 1719, e l’Autoritratto ora alla Galleria degli Uffizi a Firenze, datato 1725 sul retro della tela, sono le prime opere note della Lama che rientrano nel genere, frequentato dalle pittrici della ritrattistica, che eccelleva il Cassana.
Il Pallucchini sottolinea che
(Pallucchini, 1983, p. 30).
Giulia nel corso della sua carriera di pittrice non si esercitò soltanto in composizioni di carattere religioso ma si provò in temi mitologici e anche in mezze figure di genere, devozionali e profane, secondo l’insegnamento del Piazzetta, qualificando la sua estetica in raffigurazioni dal forte risalto plastico ed espressivo, violente nella loro gestualità e nell’uso del colore. La Glorificazione di una Santa della parrocchiale di Malamocco, Giuditta e Oloferne delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, Giuseppe interpreta i sogni dipinto in pendant con Elifaz, Baldad e Sofar consolano Giobbe, entrambi di collezione privata, il Martirio di San Giovanni Evangelista del Musée Municipal de Beaux-Arts di Quimper, sono opere cariche di pathos drammatico, in cui Giulia rielabora suggestioni dei pittori ‘tenebrosi’, da Antonio Zanchi a Gian Battista Langetti a Johan Carl Loth, pervenendo ad un inedito stile drammatico, a una pittura che radicalizza l’opposizione fra luce e ombra.
Il Pallucchini ritiene che “Non è certo facile delineare lo sviluppo dell’attività pittorica della Lama, non solo per la scarsità di supporti cronologici sicuri, ma per l’uniformità dei suoi modi espressivi” (Pallucchini, 1995, p. 311).
La Lama è una delle poche donne che si sono imposte nel campo della grande pittura di tradizione italiana, quella delle pale d’altare e della pittura di storia. La pittrice però non riuscì mai, come accadde invece a Rosalba Carriera, a guadagnarsi una posizione preminente nel panorama artistico del suo tempo, sia probabilmente, per il suo stile “scabro, esagitato ed anacolutico”, deferente a Giambattista Piazzetta, più giovane di lei di due anni, ma anche a Paolo Pagani ed a Federico Bencovich, “con esiti di ancora più tesa e, talvolta, sgradevole espressività” (Ruggeri, 1983, p. 119) sia per l’ostilità dei colleghi. Nei primi decenni del Settecento a Venezia erano presenti molti pittori di ottimo livello; ben si comprende come la concorrenza di una donna abbia creato in molti di loro sconcerto e irritazione. Forse anche per questo certi suoi colleghi, considerandola un’intrusa, l’avversavano o le creavano difficoltà.
Spetta al Ruggeri (1967) averci rivelato la Lama disegnatrice sulla base di alcune opere grafiche rinvenute all’Accademia Carrara di Bergamo, eseguite con la tecnica piazzettesca, tracciate a matita e a carboncino e lumeggiate di biacca su carte colorate. Il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe del Museo Correr di Venezia possiede una splendida selezione di suoi disegni, tutti studi di nudo tratti dal vero. Una prassi non certo convenzionale per una donna dell’epoca, dove le pittrici ripiegavano molto spesso sul ritratto e sulla natura morta due generi che non necessitavano di studi anatomici e che non suscitavano scandalo.
Un’artista di talento come la Lama è stata riscattata dall’oblio solo da parte della critica dello scorso secolo grazie ai contributi di Fiocco, di Goering, di Pallucchini, di Bortolan e di Ruggeri che hanno saputo valorizzare il suo stile forte e il senso di particolare drammaticità che ha infuso nelle sue opere.
Nonostante l’approfondita conoscenza dell’artista è rispuntato con Egidio Martini il pregiudizio accademico:
(Martini, 1982, p. 506).

