la tana del topo, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. La tana del topo

Carissime lettrici e carissimi lettori,
un capo di governo va a omaggiare all’aeroporto, come si fa con un Capo di Stato aspettandolo ai piedi della scaletta dell’aereo, un semplice cittadino che ha avuto problemi, seppure si sia dichiarato sempre innocente, con la giustizia americana. Un capo di uno Stato di un regime teocratico muore schiantandosi con il suo elicottero su una montagna asiatica, probabilmente, ma non con la certezza dei fatti, a causa di una bufera meteorologica: il tempo dirà come siano andate davvero le cose, mentre, alla notizia della sua morte, il Paese si spacca, tra pianto e gioia. Una ragazzina di quattordici anni, malata di tumore, suona magnificamente il pianoforte, ma viene insultata pesantemente sul web unica sua compagnia nelle lunghe giornate da passare in ospedale.
Intanto il mondo dovrebbe analizzare e cercare di capire la potenza, che sia essa negativa o positiva (si dice per par condicio) per capire cosa vogliono dire questi avvenimenti, tutti importanti nella stessa maniera, e quanto peseranno e potranno essere importanti per trasformare il futuro.
Il presidente del consiglio è la premier italiana che è andata, il 18 maggio, all’aeroporto militare di Pratica di Mare, a una manciata di chilometri da Roma, scendendo letteralmente in pista ad accogliere, alle scalette dell’aereo, Chico Forti, arrivato con un volo di Stato dalla Florida. Forti è un signore sessantacinquenne, nato in Trentino, che dopo una vita da sportivo e una notevole vincita in un quiz televisivo, ha deciso di trasferirsi negli Usa dove ha continuato, o praticamente iniziato, grazie ai guadagni della vincita alla televisione italiana, la sua attività di investitore fino alla proposta fatta ad un altro imprenditore, per l’acquisto di un albergo in vendita nella super turistica isola di Ibiza. Il figlio del proprietario dell’hotel, in disaccordo con la vendita, va in Usa per prendere contatti e chiarire i suoi dubbi. Viene trovato morto su una spiaggia, nudo, con due colpi di pistola alla testa e un tentativo di far passare l’accaduto come una violenza sessuale. Dell’omicidio viene accusato Chico Forti che affronta, sembra, un interrogatorio proprio non secondo le regole e, nuovamente dobbiamo dire sembra, per una vendetta per certe notizie, date da una sua televisione, sull’assassino di Versace che non si sarebbe suicidato.
Forti viene processato e condannato all’ergastolo perché riconosciuto dal Tribunale americano come omicida. L’Italia e il suo governo di allora si attivano. Enrico Letta, presidente del consiglio, nel 2013 chiede l’estradizione, si continua a provare finché l’attuale premier, dopo un suo viaggio negli States, ci riesce, la sostengono, avendolo fatto nel tempo, anche personaggi dello spettacolo come Fiorello, Jovanotti e Bocelli. Questo è un passo encomiabile nella difesa di un cittadino italiano che finalmente si riesce a portare a scontare la sua pena in Italia, dove potrebbe rivedere la sua anziana madre. Ma la Premier (o il premier come vuole essere chiamata) fa di più: lo fa arrivare con un volo di Stato, va all’aeroporto, anzi all’aereo, a prenderlo, lo abbraccia, si fa fotografare con lui sorridentissima prima che Forti venga avviato al carcere di Rebibbia per poi arrivare a quello di Verona, dopo un contestatissimo passaggio a casa per salutare la madre quasi centenne e lo zio.
Dunque, un cittadino normale che ha una condanna, giusta o sbagliata, ma che, come è stato detto, l’ha ricevuta non in Iran o in un paese di regime, ma negli Usa giudicati dai più un paese democratico con una magistratura da rispettare. Come è stato detto per quella magistratura, stavolta ungherese, che ha giudicato l’italiana Ilaria Salis, nell’Ungheria di Orban.
Si è portato l’esempio di Silvia Baraldini che rientrò in Italia nel 1999 e scontò altri anni di carcere qui, prima di avere la pena tramutata agli arresti domiciliari per motivi di salute. Estradata sempre dagli Usa, accusata di terrorismo (senza nessun reato di sangue). Nessun Presidente del consiglio pensò di andarla a prendere in aeroporto: fu un avvenimento molto discusso, ma aveva un’evidente motivazione politica.
La questione è davvero confusa. Michele Serra nella sua rubrica su un quotidiano nazionale scrive perplesso: «Letti un bel po’ di articoli e di commenti sulla vicenda di Chico Forti confesso di non averla capita. O meglio: capisco (e condivido) il sollievo umano per il rimpatrio di un detenuto per omicidio che ha già trascorso molti anni nelle carceri americane, e potrà scontare una coda di pena in quelle italiane, riabbracciando la madre molto anziana. Quello che non riesco a capire – scrive ancora Serra – è perché mai la sua vicenda avrebbe coloriture politiche tali da farlo benvolere dall’attuale governo e accoglierlo in pompa magna dalla presidente del Consiglio, signora Giorgia. Che cosa c’è di politico, in questa storia? E nella biografia di Forti? Nelle sue imputazioni? Il precedente di Silvia Baraldini non è proponibile. In quel caso la componente politica pesava con evidenza, nel bene e nel male. La giustizia americana la considerò colpevole di reati di associazione sovversiva. La sinistra italiana (in uno dei pochi momenti della storia repubblicana in cui è stata al governo: D’Alema presidente del Consiglio, Diliberto ministro di Grazia e Giustizia) si espose per i diritti di una detenuta per reati politici. Venne duramente criticata per ragioni politiche. Il contenzioso si capiva.
Era comprensibile. Ci si poteva schierare. Ma Chico Forti? Bandiera della destra, perché mai? Che cosa c’è di destra, in tutta questa storia? Non ho niente contro di lui, non ho niente da dire in suo favore (se non la generica vicinanza che mi viene da esprimere a chiunque sia detenuto). Perché la destra ne ha fatto una bandiera? Per improvvisazione? Per caso? Per simpatia fisica con un bel signore atletico? Si è innamorata di lui “perché non aveva niente da fare” (Luigi Tenco)?». Più che mettere dubbi Serra, a guardar bene, ce li toglie.
L’Iran piange il suo presidente. Anzi no. A pochi giorni dalla morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir Abdollahian, per lo schianto, a una sessantina di chilometri da Teheran, dell’elicottero sul quale viaggiavano. Dietro il pianto, gli inviti alla preghiera, le manifestazioni religiose e politiche (entrambe sempre all’unisono), serpeggia una sottile speranza che ha provocato un moto di gioia nel popolo iraniano, soprattutto per chi è costretto all’estero. Le oppositrici e gli oppositori del regime hanno visto una possibilità di cambiamento in una terra dominata da un regime teocratico dove, purtroppo, la libertà di azione è bloccata. Potrebbe essere giunto il momento della speranza di miglioramento nella situazione del proprio paese che secondo Human Rights Activists News Agency, l’organizzazione che promuove la difesa dei diritti umani in Iran, finora avrebbe la responsabilità di cinquecentotrenta morti (di cui 71 erano dei bambini o, comunque minorenni) fra i partecipanti alle varie manifestazioni, soprattutto fatte nelle strade di tante città del paese dopo la morte, per uccisione, della giovanissima Mahsa Amini, nel settembre del 2022, colpevole di non aver indossato in modo corretto (!) l’hijab, il velo obbligatorio per tutte le donne iraniane. La stessa organizzazione fissa a più di 19 mila il numero delle e degli arrestati. Un dato innalzato, invece, dal più recente rapporto fatto da Amnesty international (Rapporto 2023-2024. La situazione dei diritti umani nel mondo). Per Amnesty i morti uccisi dal regime teocratico iraniano sarebbero quasi novecento!
Uomini e donne iraniani/e, come le donne afghane che non dobbiamo mai dimenticare (ma se ne parla troppo poco), stanno mostrando tutto il loro coraggio. E continuano imperterrite, contro il regime, le azioni di coraggio e di sfida.
Così è chiaro che dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi, che doveva essere il successore del grande Ajatollah Ali Hoseyni Khamenei guida suprema dell’Iran, si riaccendono l’impegno e le speranze future.
Vale davvero soffermarsi sulle parole di una grande attivista come Pegah Moshir Pour, giovanissima (classe 1990), nata in Iran ma cresciuta in Italia, che si interessa di Diritti umani e di cultura. Va spesso nelle scuole a parlare di empowerment femminile e di linguaggi digitali. È stata premiata Standout Woman Award e inserita nella lista delle cento innovatrici e innovatori «che hanno fatto la differenza nel 2022 per StartupItalia». Sulle pagine di un quotidiano nazionale Pegah Moshir Pour, confermando ciò che sopra abbiamo detto, ha scritto questo commovente e lucido articolo: «Nel fitto velo di dolore che avvolge l’Iran per la scomparsa di Ebrahim Raisi, la luce della speranza continua a brillare con intensità inestimabile. Sebbene il regime tenti di dipingere un quadro di lutto estremo, le strade dell’Iran risuonano di un coro di determinazione e di una fiamma di ribellione che non può essere soffocata. Nonostante le immagini di lutto trasmesse dai media ufficiali, l’anima dell’Iran pulsa con la forza degli slogan che gridano la fine dell’oppressione. Il movimento Donna, Vita, Libertà, con il suo ruggito di resistenza, cresce sempre più potente, echeggiando nelle profondità del cuore della nazione. Il ritorno dei simboli di libertà, come le lunghe chiome di donne che sfidano l’elicottero dell’oppressione, diventa un richiamo alla determinazione del popolo iraniano nel perseguire la propria libertà. Nel cuore della metropoli, il popolo iraniano sfida il buio dell’oppressione con una gioia che trapassa il dolore, una gioia che brilla come una stella nel cielo notturno. Immagini e video delle vittime innocenti del regime, ora diventate martiri della libertà, ballano e sorridono nell’eternità della memoria collettiva, testimoniando la forza indomabile dello spirito umano. Si sentono per le strade le canzoni di Toomaj Salehi, il rapper iraniano voce del Movimento, condannato a morte. Il popolo iraniano non si lascia intimidire dalla morte di Raisi, ma vede in essa un’opportunità per far sentire ancora più forte il proprio dissenso e la propria disobbedienza. Mentre il regime tenta di offuscare la verità con lacrime finte, elementi prefabbricati, il popolo iraniano abbraccia la giustizia che finalmente ha fatto la sua comparsa. Fuochi d’artificio illuminano le notti, simboli di una rinascita che non può essere ostacolata, mentre dolci gesti di gratitudine sono offerti a coloro che hanno resistito al buio con coraggio e determinazione. La morte di Raisi non segna la fine, ma piuttosto l’inizio di un nuovo capitolo nella storia del popolo iraniano. Mentre il Paese si prepara per le elezioni anticipate, la rabbia e la disillusione diffuse sono il carburante che alimenta la fiamma della rivoluzione, mentre il popolo si prepara a rifiutare il futuro che il regime vorrebbe imporre. Nel cuore dell’Iran, la speranza brilla ancora, una fiamma che non può essere spenta. La lotta per la libertà, la dignità e la giustizia continua, guidata dal coraggio e dalla determinazione di coloro che hanno deciso di non piegarsi di fronte all’oppressione. Che il mondo possa udire il grido di libertà dell’Iran e unirsi alla sua causa, affinché un giorno possa risplendere la luce della libertà su tutta la terra. Tuttavia, la loro voce rimane forte, con attivisti come la premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi e altri che continuano a difendere la libertà nonostante le minacce di esecuzione. Il futuro dell’Iran rimane incerto, ma il popolo iraniano non si arrende alla disperazione. La lotta per la libertà, per i diritti umani e per una vita migliore continua, alimentata dal coraggio, dalla creatività e dalla speranza di un domani più luminoso. La voce del popolo rimane un monito costante per coloro che cercano di opprimere la sua libertà».
Quanto possono ferire, fino al disastro morale, i social? Asia, una quattordicenne della provincia di Salerno, malata di tumore e periodicamente ricoverata al reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale Santobono Pausilipon di Napoli, ha commosso con la sua storia persino il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che le ha scritto per incoraggiarla e premiarla del coraggio con il quale affronta gli avvenimenti che la vita le ha presentato. Asia suona magnificamente il pianoforte e il personale dell’ospedale ha postato sui social una sua piccola esibizione fatta per gli altri e le altre piccole e piccoli ricoverati/i. Qui si sono sfrenati (nel senso di essere senza un freno etico) i leoni e leonesse da tastiera. Le hanno augurato il peggio, come se una ragazzina malata di tumore ne avesse bisogno e come se fosse lecito farlo, verso una ragazzina come verso chiunque. L’equipe dell’ospedale ha scritto una lunga lettera in difesa di Asia (ma non solo aggiungiamo noi) che finisce così: «È a voi che ci rivolgiamo, ed è a voi che chiediamo di fare uno sforzo di umanità. Asia non ha scelto di essere malata, potesse scegliere sicuramente sceglierebbe lunghi e fluenti capelli ma purtroppo non può. Voi però una scelta la avete: scegliete di restare umani ed aiutateci a costruire un mondo migliore di questo. Se avete voglia di supportare Asia fatelo con parole gentili, partiamo da noi. Partiamo da questo post e rivoluzioniamo questo mondo con la forza della gentilezza. Asia sei una forza». Lo hanno scritto tutto maiuscolo.