accadde…oggi: nel 1785 nasce Juliette Colbert

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Questa è la storia di Juliette Colbert, nata vandeana, nella Loira, e divenuta più piemontese dei piemontesi. Cresciuta tra gli ori di palazzo e morta povera di sostanze, ma ricca in spirito, perché donò tutto in beneficienza. È la storia di una donna del Risorgimento che dedicò la sua vita alla propria comunità e al territorio in cui visse, con particolare attenzione ai poveri e agli ultimi, con dedizione e fierezza.

Pronipote di quel Jean-Baptiste che fu Ministro del Re Sole, Juliette Colbert trascorse l’infanzia tra il fuoco della Rivoluzione. Orfana di madre a soli 7 anni, vide molti dei suoi parenti salire sul patibolo del “rinnovamento giacobino”, durante gli anni del Terrore. Bella, colta e raffinata, negli anni della Restaurazione fu accolta dalla corte francese di Napoleone, che si narra divenne sensale tra lei e il futuro marito, il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, sposato nel 1806, a cui fu sempre fedele.

Trasferitasi a Torino nel 1814, prese alloggio nello splendido Palazzo Barolo, che il caso volle in «via delle Orfane», profezia di una vita che la Marchesa dedicò alle cure dei più deboli. Con la complicità del marito, Juliette scoprì la propria vocazione nella carità e nelle opere pie, alimentata da una fede cristiana incrollabile e un senso della redistribuzione sociale che oggi stupirebbe i più accesi sostenitori del welfare-state. «Quando la giustizia ha esaurito il proprio corso, lascia che la carità inizi il suo», annotava nel suo diario. Parole che divennero fatti concreti. Palazzo Barolo aprì le porte ai poveri e ai mendicanti, cui la Marchesa in persona serviva zuppe calde e ristoro. Silvio Pellico, diseredato e malconcio dopo la prigionia allo Spielberg, trovò in Juliette una mentore e una protettrice, divenendone segretario personale.

UNA DONNA PER LE DONNE

Juliette capì a fondo il privilegio e la fortuna di essere nobile, per questo sentì più acuta la necessità di aiutare gli ultimi. E ultime degli ultimi, in un periodo fortemente patriarcale e autoritario, erano le donne, specie quelle emarginate dalla società e tacciate dallo stigma del peccato: le carcerate. Juliette si recava quotidianamente in visita alle «forzate», come venivano apostrofate prostitute, ladre e assassine messe ai ceppi e dimenticate da tutti. Le assisteva nei bisogni materiali (vestiti, giacigli, igiene personale) e spirituali, insegnando loro a leggere, a scrivere e a pregare. Alla Colbert si deve uno dei primi progetti di riforma carceraria, presentato al Governo nel 1821, che la fece nominare, scandalizzando molti, sovrintendente alle carceri.

Le donne saranno sempre nei suoi pensieri. Palazzo Barolo divenne il primo asilo infantile italiano, luogo dove le mamme lavoratrici potevano lasciare i propri bambini. Juliette finanziò e creò istituti per l’accoglienza delle giovani e giovanissime prostitute, la cura delle ragazze disabili – l’Ospedaletto di Santa Filomena – e l’educazione delle figlie degli operai: le prime scuole professionali dove si insegnava a tessere e ricamare. Alla sua morte, nel 1864, con le sue ultime volontà, diede vita all’Opera Pia Barolo, alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia, che ancora oggi prosegue l’impegno sociale, politico e culturale della sua fondatrice.

 

 

L’INVENTRICE DEL BAROLO

La grandezza della Colbert non giunse soltanto dalle opere di carità. Profonda amante del territorio piemontese, la Marchesa ebbe fra i suoi possedimenti il celebre Castello di Barolo, con gli annessi vigneti. In combutta con il Conte Camillo Benso, che aveva i suoi poderi poco distanti (nell’attuale comune di Grinzane Cavour), ebbe l’intuizione di “nobilitare” il nebbiolo dell’epoca che, stando ai documenti, era un vino tutt’altro che contemporaneo. Il «Nebiulin», come veniva chiamato, era dolce e frizzante, soffriva dell’inesperienza dei contadini nel portarlo a secco, invecchiava male ed era conservato ancora peggio.

Juliette, che ben conosceva i vini francesi, affidò le nuove vinificazioni all’enologo Paolo Francesco Staglienò[1], che cambiò per sempre il modo di produrlo: divenne un vino secco e profumato, vinificato secondo le moderne tecniche francesi (controllo delle temperature degli ambienti di fermentazione e affinamento in botti piccole), tanto buono e sorprendente che lo stesso Cavour convertì le sue cantine alla nuova produzione. Ma il «Barolo», che così cominciò ad essere chiamato per differenziarne la qualità, nacque nel 1843, e fu una straordinaria “operazione di marketing”. Quando il re Carlo Alberto chiese alla Marchesa di fargli gustare «quel suo famoso vino del quale tanto aveva sentito parlare», la Colbert non gliene inviò una cassa da sei. Ma 325 botti da 500 litri ciascuna, una per ogni giorno dell’anno, fatti esclusi, ovviamente, i quaranta della quaresima.