accadde…oggi: nel 1928 nasce Giovanna Bemporad, di Sara Mostaccio

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Le sue poesie e le sue traduzioni sono le due metà di un’opera unica, continuamente rivista nel corso di un’intera vita votata al fuoco sacro che le bruciava dentro. Questa è la storia di Giovanna Bemporad, poetessa enfant prodige.

Nata a Ferrara nel 1928, è figlia di un importante avvocato di religione ebraica ed è considerata sin da ragazzina un vero portento per la sua incredibile padronanza di latino e greco, ebraico e sanscrito. Studia al liceo Galvani di Bologna ma al di fuori del percorso formativo canonico è allieva di Mario Praz, Leone Traverso e Carlo Izzo.

Ha solo 15 anni quando le sue traduzioni di Omero vengono preferite a quelle di Salvatore Quasimodo e pubblicate su una Antologia dell’epica in uso anche nel liceo che frequenta. A 13 anni aveva tradotto l’Eneide di Virgilio in 36 notti scegliendo già l’endecasillabo che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Se ne servirà anche per la sua Odissea, l’opera più sofferta e più amata, quasi una vocazione dai tratti ascetici.

“Ho scelto l’Odissea perché è “la più bella storia del mondo”, perché noi siamo, ognuno di noi è Ulisse, anche noi cerchiamo i mari ignoti (o gli spazi del cielo) e la via del ritorno… vogliamo spingerci oltre le colonne d’Ercole per trovare la risposta definitiva alla domanda che ci siamo posti nascendo.”

Presto Giovanna abbandona gli studi regolari e si dedica alle traduzioni dal greco, dal francese, dal tedesco. Anticipa i contestatori di qualche decennio dopo. Enzo Siciliano la descrive in “abiti bislacchi, laceri; svagato disordine”. Non le importa un fico secco del suo aspetto, quel che persegue è solo il sacro fuoco della poesia che la divora.

“Con la scuola non legavo, così come non legavo con la famiglia… sono stata una contestatrice avanti lettera. Avevo scelto, per una forma di protesta esistenziale, di andare in giro senza scarpe, di non lavarmi, di non pettinarmi, di usare un linguaggio brutale… i ragazzi mi ridevano dietro… io nemmeno me ne accorgevo. Avevo un gran fuoco dentro, mi sentivo una vestale della poesia.”

A causa della sua religione ebraica durante il fascismo si rifugia a Casarsa e approfondisce l’amicizia con Pasolini che aveva già incontrato a Bologna. Trascorrono le notti in una stanzetta a leggersi poesie. “Capii subito che sarebbe diventato un gigante…. mi sentivo sopraffatta. Se esisteva lui come poeta, non potevo più esistere io.”

Con Pasolini aveva collaborato già nei giorni bolognesi alla rivista Il setaccio firmandosi Giovanna Bembo per non tradire le sue origini. Il giornale infatti esce sotto l’egida della Gil, la Gioventù Italiana del Littorio. Tornano a collaborare al progetto di una scuola per i figli dei contadini, prima a San Giovanni di Casarsa nell’autunno 1943 e in seguito a Versuta.

Dura solo pochi mesi perché non essendo ancora laureato Pasolini non ha le carte in regola per gestire una scuola. Quella breve avventura però coinvolge le migliori menti del momento chiamate dal poeta a partecipare. Giovanna è tra loro. Lascia tutti di stucco questa poetessa eccentrica e poliglotta con fama da enfant prodige che indossa un soprabito sformato e parla alle contadine di poeti greci.

Dopo la guerra arriva a dichiararsi lesbica per motivi politici (e per tenere alla larga gli uomini, dice) e conduce una vita erratica e anticonformista. Vive a Venezia in uno scantinato al freddo e al buio, con pochi arredi racimolati dagli amici e l’aiuto delle signore del vicinato che la sfamano. In quelle condizioni durissime si nutre di poesia. Inizia a scrivere lì i suoi Esercizi che usciranno nel 1948 e nel corso di tutta la vita saranno continuamente rivisti e ripubblicati con modifiche e ampliamenti progressivi, come un costante work in progress.

Elio Pagliarani, che la conosce sin dall’adolescenza, dice di lei: “Mi declamava versi sulla spiaggia preferibilmente di notte, e a me tredicenne lei quindicenne pareva proprio una Pizia, un’autentica sacerdotessa di Apollo.” Quel fuoco sacro la scalda nelle rigide notti veneziane. È in questi anni infatti che inizia a scrivere di notte mantenendo poi questa abitudine per il resto della vita.

Con gli occhi che già nuotano nel sonno

mi chiedo con un brivido: chi sono?

Il libro degli Esercizi contiene una scelta di poesie ma anche le sue traduzioni dai Veda, da Omero e Saffo, dai francesi Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Valery e dai lirici tedeschi Rilke e Hölderlin. Nel tempo vi si aggiungeranno Goethe, Novalis e Hofmannsthal. E, in ultimo, il Cantico dei Cantici tradotto dall’ebraico nel 2006. Tutte queste frequentazioni lasciano tracce nella sua poesia profondamente intrisa di tradizione classica. Da ragazza prodigio mi sono trasformata volontariamente in una poetessa «postuma» e mi sono camuffata sotto la corazza delle traduzioni dei classici.”

Un costante e tenace lavoro di cesello caratterizza la traduzione di Giovanna, mai paga della soluzione linguistica fino a che non abbia trovato l’esatta corrispondenza con pazienza, dedizione, sacrificio. Dalle traduzioni attinge la linfa che nutre la sua lingua poetica personale. Pasolini la accusa di mancare di impegno civile ma a Giovanna non interessano bandiere e proclami. Sul finire della vita anche lui capitola e ammette: “Avrò sempre il rimpianto di quella poesia che è azione essa stessa nel suo distacco dalle cose, nella sua musica, che non esprime nulla se non la propria avida e sublime passione per se stessa.” È fatta di questo la poesia di Giovanna.

Vorrei perdermi in te, con braccia ardenti
stringerti esangue, fiore che tra i fiori
recisi dei suoi petali si spoglia.

Anche la poetessa Joyce Lussu le imputa di essere assente dalla vita reale, dall’impegno politico, dalla partecipazione sociale. Ma a Giovanna non importa, è la poesia che conta, che è tutto. È alla poesia che obbedisce, di poesia si nutre. Persino quando, catturata dalle SS e sotto minaccia di fucilazione, grida “non si uccide la poesia!” e declama in tedesco i versi di Hölderlin.

“Le SS rinunciarono alla fucilazione e mi rinchiusero nelle carceri di Rovigo. Qui per tre mesi mi tennero sotto il torchio dei loro terribili interrogatori. Ma non approdarono a nulla. A stancarsi furono loro, i miei aguzzini, e mi lasciarono andare.”

Faticosamente si strappa dalla condizione di indigenza per entrare in una vita più borghese. Le poesie riscuotono un certo interesse, con gli Esercizi vince premi e collabora al quotidiano Il Mattino del Popolo con traduzioni e brevi saggi per una rubrica sulla poesia moderna. Quando riceve un incarico giornalistico dal CLN per i suoi meriti partigiani, con stipendio e accesso alla mensa, la povertà finalmente si allontana. Negli anni seguenti si trasferisce a Firenze e nel 1957 sposa Giulio Orlando, futuro parlamentare in due governi Moro, con Giuseppe Ungaretti testimone di nozze. Tra le sue amicizie ci sono anche Camillo Sbarbaro, Cristina Campo, Margherita Dalmati.

Ma non so che inquietudine febbrile
fa ingombro a questo dolce accoglimento
calando il sole, prima che ogni gesto
si traduca in memoria e che ogni voce
s’impigli nel silenzio.

Muore a Roma all’inizio del 2016, è malata da tempo. Incompiuti restano gli Esercizi, continuamente corretti, ampliati e modificati fino all’istante prima di andare in stampa a ogni nuova edizione. Incompiuta anche la sua Odissea iniziata negli anni 50 e mai conclusa, continuamente rivista. La tensione verso la perfezione, pur nella consapevolezza di non poterla mai raggiungere pienamente, le ha impedito di completare ambedue i suoi progetti letterari.

Già la mia vela, in signoria dell’ombra
l’impudenza del giorno lascia a riva
col suo lungo corteo di foglie morte.

Giovanni Raboni diceva fosse un “infinito perfezionamento ritmico e sonoro… È quasi impossibile, nel suo caso, fare distinzione fra testi originali e testi derivati: negli uni e negli altri circolano la stessa ansia di assolutezza formale, la stessa vitrea incandescenza, un’unica rarefatta ossessione.”

Un’edizione “definitiva” (ma non completa) esce negli anni 90 per Le Lettere e nel 1993 merita il Premio Nazionale per la Traduzione letteraria istituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ma una prima versione era già uscita nel 70 e perché la completasse Raffaele Mattioli, banchiere mecenate, le versava un assegno mensile. Non era destino che fosse completata. La sua è la traduzione impossibile che tenta di trovare la parola perfetta di approssimazione in approssimazione, in una ricerca infinita.

Mi riduco al silenzio, nell’attesa
purissima dell’ombra che già stende
sui vivi un lembo della notte eterna.