l’ultimo uomo, di Mary Shelley, recensione di Loredana De Vita

https://writingistestifying.com/2023/02/28/mary-shelley-lultimo-uomo/

“L’ultimo uomo” di Mary Shelley è un romanzo che suscita emozioni profonde generate da situazioni e condizioni molteplici. Una storia talmente intensa da poter “perdonare” all’autrice una certa prolissità del linguaggio dovuta allo stile romantico del periodo in cui è stato scritto.
Pubblicato nel 1826, “L’ultimo uomo” si configura come un romanzo “apocalittico” o, preferisco dire, “distopico”; si tratta, cioè, di una storia ambientata nel futuro, una storia divisa in tre volumi che comincia nel 2073 e prosegue fino al 2092 anno in cui l’ultimo uomo sopravvissuto, Lionel Verney scrive degli eventi occorsi nella speranza che esista un domani in cui qualcuno troverà i suoi scritti e imparerà ad agire più responsabilmente e con consapevolezza e rispetto dell’altro.
La storia, in realtà, come vedremo, ha molto della vita della stessa Shelley, delle persone da lei conosciute e/o amate, dei luoghi visitati sempre in fuga dai creditori e alla ricerca di una serenità che le sembra impossibile in seguito alla morte dei suoi tre figli e, poi, del marito Percy Shelley.
L’espediente letterario usato da Mary Shelley è quello del ritrovamento presso la Grotta della Sibilla a Cuma (Napoli) di alcune foglie incise con frasi in lingue diverse. La narratrice del prologo, che è l’autrice stessa, racconta di aver raccolto quelle scritte in italiano e in inglese e di avere attraverso la lettura ricostruito la storia dei tre volumi che seguono e che possono rappresentare, in sequenza, il fiorire di un sogno (la scoperta dell’amicizia e dell’amore), l’incontro con la realtà oltre il sogno (le delusioni e i tradimenti), la punizione e la decadenza (conseguenza del rifiuto di dare un significato e dei valori alla propria condizione umana).
La voce narrante dei tre volumi, invece, è quella di Lionel, l’ultimo uomo, che vaga da solo e disperato interrogandosi sul perché egli sia l’unico sopravvissuto (domanda che più volte la stessa Shelley si pone in seguito alla morte del marito e dei figli) in cerca della sua fine in un mondo che gli ha portato via tutti gli affetti più cari a causa di una grave epidemia di peste che ha colpito il mondo intero rivelando la miseria e l’egoismo degli uomini che, invece di soccorrersi vicendevolmente, riescono persino dinanzi alla sofferenza così profonda e generalizzata a dividersi in fazioni che si combattono e si odiano.
Come non individuare nella narrazione il profilo biografico ed emotivo della Shelley? Ogni luogo visitato è parte della sua vita, ogni personaggio rappresenta una delle persone importanti che le sono state accanto e che sono sparite troppo presto. Così, metaforicamente, la stessa Mary Shelley è Lionel mentre il marito Percy è ben rappresentato nell’idealista Adrian e il caro amico Lord Byron nell’imponente e attivo Raymond.
Il romanzo non è di facile lettura per il linguaggio, come accennavo in principio, ma è un romanzo che non può essere letto in questo senso con gli occhi di oggi, anzi, è grande il riconoscimento di capacità intellettiva che bisogna presentare alla Shelley per aver saputo immaginare con gli occhi del futuro le conseguenze catastrofiche del comportamento degli esseri umani sia verso la natura che verso gli stessi uomini.
Una proiezione nel futuro, quella della Shelley, senza pretese scientifiche, ma dettata solo dall’abilità di saper leggere i segnali del presente, interpretarli e immaginarne le conseguenze.
La natura, nell’intero romanzo, così come era tipico del Romanticismo, assume un valore catartico o punitivo, in ogni caso è la personificazione dell’umore e del comportamento degli esseri umani che circonda.
“L’ultimo uomo” di Mary Shelley è un romanzo da assaporare con pazienza nel suo complesso, ma, soprattutto, da interpretare con lo sguardo di chi ne accoglie la lungimiranza.

Pubblicità