la resistenza delle donne, di Benedetta Tobagi, recensione di Valeria Vite

“La resistenza delle donne” di Benedetta Tobagi

Nei libri di storia il partigiano medio è giovane, italiano, maschio, etero, cisgender e imbraccia un fucile. Questo almeno è ciò che hanno raccontato i partiti e le organizzazioni che hanno partecipato alla Resistenza, tanto di sinistra quanto monarchici e democristiani, e tale è l’immagine che propongono i grandi romanzi del neorealismo italiano sui partigiani. Ma si tratta di una verità storica completa e rispettosa di tutte le persone che si sono opposte al fascismo? L’Agnese va a morire offre una protagonista femminile, ma si tratta di una goccia nel mare.

Benedetta Tobagi ha voluto proporre un profilo differente rispetto a quello del Partigiano Johnny: nella resistenza hanno combattuto anche le donne con coraggio e valore pari agli uomini. Dopo anni di silenzio da parte dei combattenti e delle combattenti stesse, la verità esplode in libreria nel romanzo La resistenza delle donne di Einaudi, in cui l’autrice diventa testimone di storie che non ha vissuto direttamente, ma che ha letto sui libri o ha sentito raccontare. L’opera ha anche vinto la sessantunesima edizione del Premio Campiello, sebbene non si tratti di narrativa in senso stretto, ma di una raccolta di testimonianze.

La Tobagi scava nel passato dell’Italia per riportare alla luce la voce di donne che per decenni hanno taciuto, timorose di essere considerate delle “poco di buono” in un’epoca in cui il Sessantotto e le femministe non avevano ancora sfidato il patriarcato, una discriminazione da cui i gruppi partigiani, comunisti e socialisti compresi, non erano immuni. Le combattenti che portano la loro testimonianza vengono citate per nome e cognome, eppure sono volti anonimi perché nessuno le ha mai ricordate prima, oppure appaiono sorridenti in fotografie d’epoca non ufficiali, in cui pedalano in bicicletta, scherzano con le compagne e i compagni, esibiscono orgogliose sigarette, fucili o pantaloni maschili o rossetto. Le donne hanno combattuto, usando come armi gli stessi stereotipi con cui tanto il regime fascista quanto i più sinceri comunisti le segregavano in casa, al ruolo di angelo del focolare.

L’attività più diffusa era la cura dei partigiani, dei fascisti e dei tedeschi disertori e dei prigionieri in fuga, uomini che avevano bisogno di vitto, alloggio, un posto sicuro dove nascondersi, vestiti nuovi e puliti, un bagno caldo e di tutte quelle attenzioni che da millenni erano di competenza delle donne. Le massaie hanno allora cucinato, lavato e stirato come sempre nella storia, ma questa volta in nome della libertà. Molte valorose hanno svolto queste mansioni nei rifugi partigiani, accettando il marchio di “puttane” per aver convissuto con uomini che non erano loro parenti. La cura dei guerrieri non è affatto un ruolo secondario, anzi, è altrettanto importante della guerriglia ed è ugualmente pericoloso, perché le donne che sono state scoperte e arrestate hanno patito sofferenze orribili. Tale compito veniva affidato non solo alle più giovani, ma anche a madri e nonne, perché per essere partigiane si può avere qualsiasi età, sebbene fossero arruolate soprattutto teenagers e ventenni.

Moltissime svolsero un ruolo più attivo, trasportando messaggi e armi nel faticoso e pericoloso ruolo di staffette. Nascondevano i documenti sotto i vestiti e nelle canne delle biciclette, le armi invece nelle carrozzine per neonati. Compivano viaggi massacranti pedalando per molti chilometri, all’arrivo erano sfinite e avevano bisogno di dormire per giorni. Per non destare sospetti si vestivano con abiti eleganti, fingendosi prostitute o quel genere di donna che fornicava con il nemico, e si affidavano alla recitazione e all’improvvisazione per superare i controlli. Ecco allora che la Resistenza si serviva anche dello stereotipo fascista della “puttana” che tanto veniva condannato dalle camicie nere.

Se la maggior parte delle donne ha svolto il ruolo di staffetta, alcune hanno combattuto al fianco degli uomini, pochissime sono riuscite a comandare una squadra. Si tratta di donne estremamente valorose, ma non molto numerose per l’opposizione degli antifascisti al fatto che simili ruoli venissero assegnati alle donne e, per tale ragione, queste ragazze sono state dimenticate: agli occhi dell’opinione pubblica, il soldato deve essere un maschio.

Come si comporta una partigiana? Le donne non lo sapevano perché, fatta eccezione per le amazzoni, la storia non ricorda altre guerriere. Le più emancipate indossavano i pantaloni e fumavano sigarette adeguandosi all’immagine maschile, le più tradizionaliste invece sfidano la neve in alta montagna con gonna, calzettoni e ginocchia nude, come le prime alpiniste dell’Ottocento. Non avevano modelli a cui ispirarsi, così ciascuna inventava la propria immagine e vestiva come preferiva.

Un compito non meno importante consisteva nel recuperare i corpi dei caduti esposti pubblicamente dal nemico e riconsegnarli alle famiglie. Un ruolo fondamentale non solo perché, come narra Foscolo, i sepolcri sono più utili ai vivi che ai morti, ma anche anche per sfidare apertamente i tedeschi. Si trattava di un incarico non facile, perché convivere al fianco di morti atroci e premature è una vera e propria sofferenza psicologica, ma le donne hanno compiuto con valore anche questa sfida.

Ragazze giovanissime acquisirono una libertà mai provata prima perché compivano attività che la storia aveva sempre loro negato. Nei nascondigli, nonostante la paura e la convivenza con la morte, si respirava un clima di spensieratezza e libertà. Qualche flebile testimonianza suggerisce sottovoce che abbiano partecipato anche persone LGBT. Le prime pagine parlano infatti di coraggio, di lotta, di libertà, femminismo ante litteram ed emancipazione; gli ultimi capitoli parlano invece di torture atroci e di una genialmente sadica e perversa inventiva, esposizioni di cadaveri martoriati e perdita di figli, mariti e fratelli. Hard times, tempi duri per tutti, anche le donne hanno sofferto perché Resistenza non significa soltanto gloria.

Al termine della guerra, i partigiani temevano queste ragazze, perché la promiscuità in cui i combattenti e le combattenti avevano vissuto a loro giudizio infangava il nome delle associazioni antifasciste. Allo stesso modo veniva negata la nascita di tresche e amori in montagna, proprio perché si temeva il giudizio di una società maschilista e patriarcale, in cui le donne non potevano essere libere. Così, al termine della guerra, i ringraziamenti furono offerti agli uomini soltanto: le donne potevano partecipare ai cortei per la Liberazione solo se mogli di un partigiano maschio e, in generale, le combattenti in primis negavano o minimizzavano il loro ruolo nella Resistenza rifiutando le onorificenze, perché molte pagarono il loro atto di coraggio con la solitudine. Nessuno le volle sposare, perché nessuno porta all’altare una donna disonorata.