il sole a quadretti, editoriale di Giusi Sammartino

Editoriale. Il sole a quadretti

Carissime lettrici e carissimi lettori,
una notizia che ci ha lasciato sbigottiti e sbigottite. Uno studente di 25 anni, qualsiasi sia stata la sua colpa (lasciamola ai giudici, va bene) è stato torturato e malmenato dalla polizia di Miami, in Usa. Matteo Falcinelli frequentava lì un master in management. Matteo, di Spoleto, è uno sportivo e forse proprio questa sua preparazione atletica, come lui stesso ha raccontato durante una telefonata alla mamma, lo ha salvato e non lo ha legato al destino di George Perry Floyd morto nel Minnesota a maggio del 2020, soffocato dal ginocchio di un poliziotto tenuto pigiato sul suo collo per nove minuti. Ora l’Italia si appresta a difendere il suo cittadino. Una storia accaduta a febbraio. La cronaca, diversa e identica, che narra di ciò che è accaduto e accade a un’altra italiana detenuta all’estero, Ilaria Salis. Per lei non si è saputo nulla o quasi per un anno intero, fino a quando le telecamere l’hanno ripresa, portata in tribunale con il guinzaglio (sì, ormai lo sappiamo), in catene alle mani e con i ceppi ai piedi, che costringevano il suo passo ad essere brevissimo e oscillante. Questo è quanto di recente è successo oltreconfine. Torniamo qui, invece, in Italia. Facciamo un piccolo, per nulla edificante, viaggio nei luoghi dove «il sole entra a quadretti» come si diceva una volta per indicare il frazionamento della fluidità della luce attraverso la rigidità quadrata delle sbarre.
Sono chiusi e chiuse dentro. Ma non possono essere considerati fuori dalla società cosiddetta civile. Assolutamente non deve, o meglio, non dovrebbe essere così. Invece andare in carcere in Italia, ma anche altrove, non è solo la sofferenza di scontare una pena, si spera il più delle volte meritata e giusta, ma crediamo altresì non iniziare quello che il carcere, come istituzione interna alla società, dovrebbe fare: ri-educare e, di conseguenza, evitare che chi entra per un delitto commesso sia posto/a in condizione di non ritornare in quel luogo. Dunque, non espiazione, ma tempo di riflessione: questo dovrebbe essere la reclusione. Spesso non è così.
Dal carcere si rimane segnati e segnate, per ogni età e per i maschi come per le femmine. E i più piccoli addirittura sono dietro le sbarre perché ci sono le loro mamme. Soprattutto in carcere si soffre di violenza. I fatti di Santa Maria Capua Vetere (2020) e quelli ancora più recenti del carcere minorile Beccaria di Milano ci parlano di maltrattamenti e non di ri-educazione, di violenze, di botte e non di ri-presentazione di chi ha sbagliato a percorrere altre strade. Da troppo tempo ci rendiamo conto che è necessario parlarne perché non si continui a creare sofferenza. E questo non riguarda solo detenuti e detenute (per le donne il carcere può essere ancora più duro e devastante), ma anche chi nelle carceri ci lavora e molte volte, oltre alla retribuzione minima, si scontra a sua volta con una situazione che rende il lavoro inaffrontabile.
suicidi dietro le sbarre sono tanti. In questo anno, ancora non arrivato alla sua metà, nelle carceri italiane sono arrivati già a 33 e purtroppo si potrebbe superare il numero dello scorso anno durante il quale si sono registrate 70 vittime e addirittura le 84 nel 2022! Poi, si aggiungono i tanti atti di autolesionismo e i suicidi, a dirla con cinismo, non andati a buon fine. Secondo l’associazione Antigone, che da anni opera nelle carceri «i suicidi, negli ultimi 30 anni, costituiscono costantemente almeno un terzo del totale dei morti nelle carceri italiane. Questo vuol dire che ogni 3 persone che perdono la vita nei nostri penitenziari, almeno 1 – ma spesso di più – muore per suicidio. Dall’altro lato, è impressionante come le linee che rappresentano rispettivamente i casi di suicidio e le morti naturali proseguano nel tempo in maniera parallela, quasi come se il suicidio fosse un dato strutturale della morte nelle nostre carceri». Sempre per Antigone oltre ai suicidi sono importanti per gravità le morti mancate e gli innumerevoli atti di autolesionismo, come è accaduto al Beccaria, il fenomeno del suicidio in carcere sembra mostrare un rallentamento, ciò non deve essere attribuito ad una diminuzione generale della violenza auto-inflitta all’interno delle mura della prigione. I dati a nostra disposizione mostrano infatti un andamento esattamente opposto per quanto riguarda i tentativi di suicidio e, in generale, l’autolesionismo.
Ma in prigione si muore di tutto: al suicidio si affianca il disastro dell’assistenza sanitaria, per cui spesso le malattie non vengono curate in modo adeguato. Si muore persino di overdose, oltre che per omicidio (questi per vendette interne, ma di ciò non tratteremo). Tante morti non vengono chiarite fino in fondo e rimangono sospese in un limbo che aumenta la negatività della situazione.
«La violenza nelle carceri è una problematica che negli ultimi anni sta crescendo quasi indisturbata – scrive in un articolo un’associazione di volontariato—. Ormai, quasi dimenticata è la questione della tutela dei detenuti. Nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, è avvenuta una gravissima violazione dei diritti umani, divenuta una delle pagine più buie della nostra storia. È iniziata — spiegano — con una rivolta di alcuni detenuti il 5 aprile, risolta nella notte dal personale penitenziario. La soluzione? Una reale macelleria messicana operata proprio da coloro che dovrebbero salvaguardare la salute psicofisica dei detenuti». L’Europa nel 2013 ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani per quanto riguarda il trattamento dei detenuti/e nelle carceri e si è parlato di uso della tortura.
I problemi sono di varia natura. Dalle condizioni materiali dei e delle detenute nelle carceri che sono spesso costruzioni fatiscenti e inadeguate. Le carceri sono poi sovraffollate e questo è uno dei motivi per cui la ri-educazione va a rilento. Per quanto riguarda il personale, le cosiddette risorse umane sono carenti e si finisce per dare poca importanza al recupero psicologico. A ciò si aggiunge la situazione di crisi della polizia penitenziaria, non oggetto di aggiornamento e mal pagata.
Circa il 35% dei detenuti ha un fine pena al più pari a quattro anni. Se si circoscrive l’osservazione alle persone con un fine pena inferiore all’anno la percentuale scende a meno del 10% (quasi 6 mila detenuti). Una forte problematica del sistema carcerario italiano rimane la sua difficoltà a prevenire la recidiva e a favorire il reinserimento dei detenuti nella società: «6 condannati su 10 sono già stati in carcere almeno 1 volta. La media dei reati ascritti ad ogni uomo detenuto è pari a 2,4 contro l’1,9 di ogni donna detenuta. Si stima che il dato della recidiva possa calare fino al 2% per i detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale».
Secondo i dati del Cnel (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) presentati, insieme al ministero della Giustizia a un recentissimo convegno dal titolo affascinante, Recidiva Zero: «Al 31 marzo 2024, il numero di detenuti presenti negli istituti penitenziari è pari a 61.049, pressoché stabile dal 2008. Il 31% è di cittadinanza non italiana (19.108). Le donne sono solo il 4,3%. Il tasso di affollamento reale, che indica la percentuale di persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili, è pari al 119%.».  Se si guarda al numero di persone con accesso all’istruzione sempre lo stesso rapporto del Cnel dice: «Su 189 istituti penitenziari l’86% hanno locali per formazione e lavoro. Dai dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) emerge un quadro degli spazi presenti all’interno degli istituti penitenziari al 15 marzo 2024. Gli istituti penitenziari che hanno trasmesso informazioni sui locali presenti all’interno del carcere e adibiti ad attività di tipo lavorativo e formativo sono stati 164 su 189, pari all’86%. Sono stati censiti 627 spazi attivi e non attivi all’interno degli istituti: 365 rientrano nella prima categoria e 262 nella seconda (in breve, sei su dieci attivi, quattro su dieci inattivi) …Una particolare rilevanza, rispetto agli obiettivi di reinserimento e inclusione dei detenuti, è assunta dalle aule didattiche e formative e dalla verifica del loro cablaggio. In questo caso la ricognizione ha riguardato 170 istituti su 189; il 31,8% dispone di aule didattiche utilizzate per corsi di istruzione di I e II grado e per l’istruzione terziaria (54 istituti con 602 aule per scuole secondarie — il 56,5% è cablato — e 112 aule universitarie – il 55% è cablato), il 64,7% dispone di 555 aule per istruzione primaria e secondaria, mentre 6 istituti non dispongono affatto di aule (3,5%). Fra i 170 istituti osservati, 45 dispongono di spazi non utilizzati, sebbene siano cablati e possano essere impiegati per percorsi formativi».
Il fattore importante che è emerso dal convegno, ma che appare in tante altre indagini, è che imparare un mestiere, partecipare attivamente a eventi culturali (soprattutto teatro) fa molto bene all’annullamento della recidiva. Recidiva zero, appunto per i detenuti e le detenute che hanno l’opportunità di imparare a lavorare e a “pensare”, agire nell’esperienza artistica e artigianale (ho visto di persona il laboratorio di sartoria al carcere femminile della Giudecca a Venezia). A Padova, lo ricorderete, al carcere maschile un laboratorio di pasticceria ha collaborato con Toponomastica femminile abbinando biscotti e cioccolatini “toponomastici” con le storie delle donne. É certo che buona parte dei detenuti, soprattutto chi viene coinvolto/a nell’esperienza teatrale e cinematografica (i fratelli Taviani hanno girato, con alcuni detenuti di Rebibbia, il bellissimo e super premiato Cesare deve morire) non rientra più in carcere!
Le donne in carcere fortunatamente sono la minoranza (solo il 4% del totale). Ma, ancora secondo i dati dell’associazione Antigone solo il 25 per cento delle detenute sconta la pena in uno dei quattro istituti esclusivamente femminili attualmente operativi in Italia (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia e Venezia-Giudecca), mentre il restante 75 per cento è distribuito tra le circa cinquanta sezioni femminili ricavate all’interno di carceri maschili presenti in tutte le regioni ad eccezione di Valle d’Aosta e Molise. Picchi di detenute si registrano in Lombardia (413) e in Campania (178) poi seguono il Piemonte, l’Emilia-Romagna, la Toscana, la Puglia e la Sicilia con una presenza tra le 100 e le 150. Più virtuose la Basilicata e le Marche (appena 12 e 15) seguite da Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. La Sardegna è a quota 30. Ma nelle situazioni locali si oscilla tra stati di sovraffollamento (come a Roma-Rebibbia) e casi di isolamento totale.
«Le donne che entrano in carcere sono comunque segnate da un contesto di grave marginalità sociale – osservano da Antigone —, riflesso nel tipo di reati per cui vengono incarcerate. Sono i reati legati al patrimonio, alla legge sulle droghe e i reati contro la persona quelli per i quali le donne vengono più frequentemente condannate alla pena detentiva. Questi, nel 2016, costituiscono insieme il 64 per cento del totale delle condanne. Se però nel 2008 il numero delle condanne per i reati legati alla legge sulle droghe (1.080) superava il numero delle condanne per reati contro il patrimonio (915), nel 2016 si registra un’inversione di tendenza, con i primi che passano a 722 e i secondi a 1.179. Le condanne per reati contro la persona restano invece più o meno stabili e nel 2016 costituiscono da sole il 18 per cento circa delle condanne totali».
«Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni». Lo aveva scritto un grande della letteratura mondiale, un classico, come si dice, di tutti i tempi che aveva provato sulla sua pelle il dolore della detenzione. Era il 1866 e Fëdor M.Dostoevskij scriveva così in quello che è tra i suoi romanzi più belli, Delitto e castigo. Alcuni attribuiscono la frase a Voltaire. Sta di fatto che è vera e ne è prova una sentenza della Corte distrettuale di Oslo che ha riconosciuto ad Anders Berhring Breivik, (lo ricorderete il killer di Utoya che nel 2011 uccise ben 77 persone, molte giovanissime) un risarcimento per aver patito un trattamento detentivo “inumano e degradante”. È stata definita una decisione illuminata ed è bello pensare che il collegio giudicante norvegese, fosse presieduto da una donna che abbia ritenuto «che Breivik meriti di essere ristorato per aver affrontato cinque anni di detenzione nel più totale isolamento, insieme al frequente obbligo di portare le manette ai polsi e per essere stato sottoposto a continue perquisizioni». La cella poi è stata ritenuta non a norma: 31 metri quadrati. Niente a che vedere con il sovraffollamento delle galere made in Italy!