accadde…oggi: nel 1903 nasce Ella Maillart, di Stefano Malatesta

1997 – Nei giorni di Pasqua è morta Ella Maillart, una delle due o tre più grandi viaggiatrici del secolo. Della sua stessa statura non mi viene in mente che Freya Stark e Alexandra David-Neel, la prima europea a penetrare a Lhasa, nel 1924. Freya è vissuta fino ad oltre novant’ anni, Alexandra fino a centouno e Ella fino a novantaquattro. Sono stati i viaggi in Asia a rendere quasi immortali queste formidabili donne o è stata la loro tempra a spingerle in avventure che ancora oggi lasciano stupefatti? Un anno e mezzo fa, dopo un viaggio attraverso l’ Asia Centrale, mi arrivò per posta da un’ amica di una casa editrice Una vagabonda nel Turkestan, di Ella. Quando le telefonai, dicendo che conoscevo il libro, ma che avrei recensito volentieri la nuova edizione, perché tutto quello che aveva scritto la Maillart non mi era estraneo, la mia amica mi chiese se l’ avevo mai incontrata. E come avrei potuto? Una vagabonda risale agli anni Trenta e Ella avrebbe dovuto avere cento anni. “Novantadue” rispose con risolino la mia amica “Portati magnificamente. Vive a Chandolin nelle Alpi svizzere, le ricordano l’ Himalaya”. Una settimana più tardi, quando presi il taxi per salire a Chandolin dalla vallata, era un fredda, solare giornata invernale e la cima del Cervino rifletteva tremolanti onde di luce. Ella abitava in un piccolo chalet svizzero chiamato “Atchala”, il nome di una collina sacra, simbolo di Shiva, arredato con pochi oggetti esotici, le fotografie dei suoi maestri indiani dallo sguardo ipnotico e qualche libro di viaggio e di filosofia orientale. Mi portò subito in terrazza, aprendo la camicia di flanella sul petto e mettendosi a prendere il sole “Si sieda tranquillo, beva questo bicchiere di vino rosso e soprattutto non mi chiami madame, per carità. Ma Ella, come tutti”. Sopra la camicia portava uno scialle e indossava una elegantissima, lunga gonna di cotone grigio-azzurro. Aveva un’ espressione gentile, con occhi azzurri ancora molto vivaci e un viso dalla solida struttura. “Come un palazzo di buona famiglia” le disse un giorno Paul Morand. Mi spiegò che da bambina era stata malaticcia e che era guarita facendo dello sci alpino. In quali anni? “Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale. Poi, da ragazza, sono passata alle crociere nel Mediterraneo, con Miette de Saussure e altre giovani. Niente uomini, creavano solo dei problemi sentimentali. Ah, che incanto l’ arrivo nei piccoli porti, la pelle che si riscaldava al sole. Volevamo andare nei Mari del Sud, sempre in barca, come Joshua Slocum. Ma Miette si è sposata con un archeologo francese, Henri Seyring. Ha chiamato la figlia con un bel nome marino: Delphine”. “Allora ho cominciato a viaggiare da sola. Mi chiedono sempre quali sono stati i momenti più difficili dei miei viaggi. Che domanda banale. E io rispondo: non c’ è stato mai nulla che possa paragonarsi alla delusione di non essere andata nei Mari del Sud con Miette”.
Abbandonata dall’ amica, all’ inizio degli anni Venti Ella è stata velista in barche inglesi, gareggiando per la Svizzera alle Olimpiadi. Giocatrice di hockey. Modella di uno scultore.
Controfigura nei film di montagna per le scene pericolose. In una sua fotografia del 1926 porta i capelli corti, à la garconne, sotto una cloche bianca di tela messa di traverso, un maglietta di filo aperta, alla marinaio e al polso un Vacheron & Costantin rettangolare. Sembra il ritratto della ragazza emancipata dell’ età del Jazz. Ma era una generazione che veniva da una guerra atroce. Come disse, un po’ ironicamente, un famoso poeta inglese: “Dietro la spensieratezza si nascondeva l’ angoscia. Sentivamo tutti il tramonto dell’ Occidente o, in via subordinata, la noia della vita casalinga”. Il viaggio è stata la metafora più frequente in quegli anni. “Immaginare di poter dirigere la propria vita è un’ illusione. Io credevo di essere nata per recitare. Mi sono ritrovata a Mosca a scrivere reportage sulla gioventù comunista e sul nuovo cinema sovietico. Non avevo soldi per andare in Russia. Mi aiutò con cinquanta dollari la vedova di Jack London, che avevo conosciuto a Berlino, dove studiavo il tedesco e lavoravo come comparsa in uno studio. Nello studio accanto Marlene Dietrich stava girando L’ angelo azzurro. Senza quei cinquanta dollari non sarei mai diventata una scrittrice”. Disse che scrivere era una grande scocciatura: “Ho sempre scritto per viaggiare, non ho mai viaggiato per scrivere”. A Mosca viveva in una stamberga che le aveva affittato la contessa Tolstoj, mangiando pane nero e bevendo un tè molto scuro e bollente. Ogni giorno andava a remare sulla Moskova con giovani operai. Non avendo nessuna passione politica, partì per il Caucaso con un gruppo di studenti per raggiungere la perduta vallata di Svanetie. Poi, nel 1932, dopo aver pubblicato un libro sulla gioventù russa, si diresse verso il Turkestan. “Ha mai visto Tempesta sull’ Asia di Pudovkin? Quella fantastica cavalleria mongola… Non avevo nessun permesso, ma i funzionari sovietici erano così stupidi. Pensavano di essere amati dai nomadi perché erano comunisti. Invece erano detestati perché impedivano la transumanza dei greggi oltre i confini. I nomadi sono gente equilibrata e saggia e solo diecimila anni fa eravamo tutti dei nomadi. Non credo che il passaggio alla sedentarietà sia stato un miglioramento. Volevo vivere con loro qualche mese, anche se certamente non avrei potuto viverci per vent’ anni. Sono tornata in Europa via Alma Ata, Tashkent, Bukhara e Khiva”. Andò nel suo studio per prendere un pesante album di fotografie in bianco e nero, scattate a Samarcanda. Si vedevano degli uomini con il cranio rasato sotto lo zucchetto, seduti in fila in un cortile, che piegavano la testa davanti ad un tetro procuratore sovietico avvolto in un pastrano nero con i baveri ricoperti di astrakhan. Era un processo ai kulaki uzbeki: “Vennero tutti condannati a morte. Sarei stata nei guai se mi avessero visto scattare le foto”. Nel 1935 aveva conosciuto a Londra Peter Fleming, l’ impareggiabile autore di Una avventura brasiliana (e fratello di Ian, il creatore di James Bond) e i due si erano rivisti a Pechino.
La Maillart veniva dalla Manciuria, da dove aveva mandato dispacci in Europa sull’ invasione giapponese ed era stata presa a calci in treno dalle truppe di occupazione. Peter voleva attraversare tutta la Cina da est ad ovest, passando per il Sin-kiang e il tremendo deserto del Taklamakan, per arrivare in India attraverso il Pamir. Partirono insieme, una delle coppie peggio assortite che si potesse immaginare, ma riuscirono benissimo a convivere. “Con Peter siamo stati fortunati. In quegli anni il Sin-kiang (Xinjiang) era zona proibita per gli europei. Ma io conoscevo Teilhard de Chardin, il teologo e scienziato che aveva scoperto i resti dell’ ‘Uomo Pechinese’ . E de Chardin mi presentò ad uno svedese che aveva viaggiato con Sven Hedin e che era arrivato nel Taklamakan facendo un lungo giro fino al Tibet, attraverso un passo noto solo a pochissimi. E che non era controllato dalle guardie cinesi”. Ad est del Kuku-nor vennero abbandonati dall’ ultima scorta e si inoltrarono in quello che Ella chiamava “Lo sconosciuto smisurato”. “Ero felice di non possedere nulla oltre un sacco a pelo e i vestiti che indossavo. Provavo una gioia tranquilla, inalterabile, che non era indifferenza perché mi sentivo vivere con una grande intensità. Lungo il cammino l’ acqua era salata e non c’ era quasi vegetazione. Così dovetti abbandonare il mio pony oramai malato e due cammelli. Nell’ Asia Centrale non si uccide mai un animale. Solo a Dio spetta di dare e di togliere la vita”. Quando arrivò a Parigi, molto tempo dopo, si muoveva malamente per le strade affollate e faceva fatica a iniziare una normale conversazione. La gente la guardava come una bestia feroce. Ci furono molti altri viaggi. Andando in auto fino a Kabul con una sua amica amatissima, che prendeva delle droghe e soffriva in modo indicibile, scoprì una verità elementare che da felice estroversa aveva fino ad allora ignorato: la vita interiore condizionava la vita esteriore.
Non fidandosi dei libri, è andata in India, vivendo in una capanna vicino Madras, non lontano dal tempio dedicato a Shiva. Cercava dei maestri. In Europa è tornata a vivere nel secondo dopoguerra, perché la dieta di riso decorticato, privo di vitamine, l’ aveva fatta ammalare. Prima di andar via le ho chiesto se avesse paura della morte. Si è messa a ridere: “Ho sempre avuto una paura folle del matrimonio, per questa ragione non mi sono mai sposata. Ma non della morte, è una cosa idiota, la morte è iscritta nel nostro programma.
Senza di lei, su che altro dovremmo riflettere?”.

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