accadde…oggi: nel 2014 muore Luisa Mangoni, di Francesco Barbagallo
Il 2014 è iniziato molto male per noi. È scomparsa la nostra carissima Marisa. Per oltre trent’anni è stata una forza essenziale di questa rivista: per il grande contributo scientifico, per la inesauribile capacità organizzativa, per l’acuta intelligenza delle proposte e dei progetti, per la saggezza dei consigli generosamente distribuiti. Napoletana di stampo europeo, si laureò in Lettere con Salvatore Battaglia.
Alla metà degli anni Sessanta seguí i corsi dell’Istituto italiano di Studi Storici, conobbe Enzo Cervelli e restarono insieme per mezzo secolo. Insegnò nei licei e collaborò col libraio-editore Gaetano Macchiaroli. Nel 1968 entrò per concorso alla Rai e lavorò come redattrice culturale fino al 1974. Pubblicò allora con Laterza il suo primo, innovativo saggio, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, e iniziò l’insegnamento universitario: a Trieste,con Giovanni Miccoli, poi a Venezia e a Trento.
Il titolo del primo libro lo prese da un articolo di Giuseppe Bottai comparso sulla rivista «Primato» il 1° giugno 1940. E iniziò la sua originale ricerca sulle diverse forme dell’organizzazione culturale, sul ruolo degli intellettuali, sul rapporto tra la cultura e la formazione di una classe dirigente. In tempi di radicali polemiche antifasciste, che giungevano a negare spazio e significato alle espressioni culturali di quel ventennio, Marisa mise in luce le iniziative e le relazioni tra uomini del regime e studiosi di orientamenti innovativi. Ricostruí con precisione i legami tra Cesare Pavese per la casa editrice Einaudi eil gruppo redazionale di «Primato», di cui facevano parte Giaime Pintor, Mario Alicata, Carlo Muscetta. Riportò alla superficie l’ultima inchiesta della rivista nel marzo ’43 sull’esistenzialismo in Italia. Tra i partecipanti Antonio Banfi, Galvano Della Volpe, Enzo Paci, Cesare Luporini, oltre a Giovanni Gentile e Ugo Spirito, conclusioni di Nicola Abbagnano.
Qualche anno dopo, nel 1977, apparve con l’editore De Donato la preziosa antologia di Primato 1940-1943. A metà anni Ottanta i rapporti tra la cultura italiana e la Francia tra Otto e Novecento furono approfonditi nel saggio einaudiano Una crisi fine secolo. Al centro era posta la «Revue des deux mondes» di Ferdinand Brunetière, che proclamava la «banqueroute de la science» e la «Renaissance de l’idéalisme», negli anni Novanta degli scandali bancari in Italia e in Francia, dell’antiparlamentarismo diffuso, dei timori accesi dal suffragio universale e dalla nascente società di massa, l’«ére des foules» di Gustave Le Bon. In Italia intanto Cesare Lombroso affermava che «è il sistema parlamentare che spesso eccita al delitto»; per concludere anni dopo, riferendosi a Crispi, che la politica era «guasta specialmente in Italia, da quella psicosi che si chiama megalomania». Intanto il suo allievo Scipio Sighele aveva pubblicato La folla delinquente e Guglielmo Ferrero aveva stretto in un giudizio negativo parlamentarismo e «cesarismo». Il frantumarsi in mille rivoli della scuola italiana di antropologia criminale «testimoniava l’estremo punto di arrivo della crisi del positivismo nel suo intrecciarsi con la crisi di fine secolo» (p. 208). Dieci anni dopo, nel terzo volume della laterziana Storia d’Italia, Marisa sviluppava questi e altri temi nel denso saggio su Gli intellettuali alla prova dell’Italia unita. Riprendeva dalla Teorica dei governi e governo parlamentare di Gaetano Mosca il principio astratto della «formula politica», quale legittimazione del potere della «classe politica», e si chiedeva: «Era il trasformismo la “formula politica” dell’Italia degli anni Ottanta»? La risposta veniva molto tempo dopo, nella presentazione della raccolta di saggi meritoriamente pubblicata nel 2013 da Viella col titolo piú volte ripreso, Civiltà della crisi: il trasformismo «individuato quindi come strumento di una unificazione da realizzarsi soprattutto nella classe dirigente e nello Stato, e divenuto poi progressivamente tratto distintivo di un abito mentale e di un costume» (pp. VII sg.). Sul finire degli anni Ottanta appariva nei tipi di Einaudi In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento. La disponibilità di uno sterminato epistolario consentiva di ricostruire l’eccezionale percorso politico-culturale, tra fascismo e democrazia, di questo prete, che si definiva «sradicato» quale «erede consapevole di un passato, quello intero della Chiesa di Roma, che non poteva essere commisurato a nessun’altra tradizione storicamente esistente, né nazionale, né ideale» (p. X).
Alla vigilia del Concordato De Luca aveva confidato a Giuseppe Prezzolini il progetto di dedicarsi alla storia della pietà italiana e poi a Giovanni Papini il desiderio di creare «una rivistina, tipo la gloriosa Leonardo, o il Regno, o la Voce (Lacerba, no)» (p. 3). Percorrerà quindi fino in fondo questa strada, portando a compimento la fondazione delle Edizioni di Storia e Letteratura e dell’«Archivio italiano per la storia della pietà».Il settimo capitolo di questo libro avrà il titolo significativo Dalla crisi di una civiltà alla civiltà della crisi. Nel processo di formazione dell’Italia democratica don De Luca indicherà la novità dell’assenza di partiti nazionali, e affermerà che sia la Dc che il Pci potevano piuttosto definirsi come partiti politici «in Italia», considerati i rispettivi legami con gli Stati Uniti e con l’Unione Sovietica.
Dall’intensa partecipazione alla nascente vita democratica scaturirà anche il legame con Franco Rodano, dal quale veniva a De Luca «la sempre piú netta percezione, evidentissima nella rivista “Cultura e realtà”, della civiltà contemporanea come “civiltà della crisi”» (p. 328).È probabile che da questa riflessione scaturisca in Marisa la particolare sensibilità per questa categoria interpretativa, all’interno peraltro della sua perspicua attenzione ai fondamenti metodologici dei concetti e delle interpretazioni dei fenomeni e dei processi storici. Proprio su questa rivista aveva fornito due prove magistrali sulla necessità di preparare solidi impianti metodologici e categoriali, adeguati a sostenere le ricostruzioni e le interpretazioni storiografiche.
Nel 1977 comparve il densissimo saggio su Cesarismo, bonapartismo, fascismo, che analizzava lo sviluppo di queste categorie da Michels a Weber, da Schmitt a Trotskij, da Kalecki a Gramsci. Dieci anni dopo la riflessione si concentrò su La genesi delle categorie storico-politiche nei «Quaderni del carcere», con una dichiarata assonanza con «quell’abito di severa disciplina filologica», quell’eccesso di «scrupoli metodici» di cui Gramsci aveva parlato a Tania in una lettera dell’estate 1931. Crisi della civiltà, «teologia della crisi», nuove e antiche «guerre di religione», rapporti tra storia della cultura e ideologie politiche saranno al centro della cospicua antologia einaudiana degli scritti dedicati da Delio Cantimori, tra il 1927 e il 1942, alla Politica e storia contemporanea, curata da Marisa nel 1991 e aperta da un acuto saggio dal titolo Europa sotterranea.
Di categorie, periodizzazioni e altre questioni di metodo si discuteva intanto, dal 1988 fino al principio dei «fatali» (ancora una volta) anni Novanta, nel gruppo di studiosi di ispirazione gramsciana che definirono la struttura dei cinque volumi della Storia dell’Italia repubblicana pubblicata poi da Einaudi, cui Marisa e Franco De Felice diedero un contributo straordinario. Nel primo volume del 1994, che affrontava gli anni de La costruzione della democrazia, apparve il saggio Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, dove si facevano i conti col fatto che non solo «la cultura del Novecento era stata in Italia fascista, ma piuttosto che gli intellettuali italiani attraverso il fascismo erano entrati nel Novecento» (p. 624).
Poi, abbattuto il fascismo con la lotta di Resistenza e avviata faticosamente la rinascita democratica, «già si erano potuti cogliere al momento stesso della fine della guerra quei primi tentativi di scindere tra responsabilità del fascismo e attuali disastrose condizioni italiane» (p. 689). Come scriveva nel gennaio 1946 Vittorio Enzo Alfieri, su «L’Acropoli» di Adolfo Omodeo, «è l’antifascismo il vero accusato». Iniziava la stanchezza, il disorientamento che avrebbe portato, nelle parole di Piero Calamandrei a una sorta di «restaurazione clandestina». Dalla Resistenza si transiterà alla «desistenza», di cui parlerà la rivista «Il Ponte»: riprenderà voce l’Italia degli uomini «qualunque», gli «uomini senza memoria». «L’uomo qualunque – scriveva nel ’45 Aldo Moro su “Studium” – non è se stesso, è altri da sé, è pronto a tutto, cosí ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto dell’ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto».
Nella seconda metà degli anni Novanta Marisa sviluppò la grande ricerca sulla storia della casa editrice Einaudi, disponendo dell’enorme documentazione conservata nell’archivio di questa impresa culturale, per decenni centrale nella storia dell’Italia contemporanea. Nel 1999 apparve, per i tipi di Bollati Boringhieri, il volume di circa mille pagine Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta. Nella premessa era indicato lo scopo di questa ricerca: «Storie individuali e storie collettive, ma, naturalmente, storie di libri: quelli pubblicati e forse soprattutto quelli soltanto pensati, particolarmente rivelatori, a volte di questo processo».
L’anno dopo, opportunamente, l’Accademia nazionale dei Lincei attribuí a questo libro il premio di ricerca della Fondazione Federico Chabod. Nel 2011 Marisa pubblicò una intensa e corposa prefazione a I verbali del mercoledí. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, curata per Einaudi da Tommaso Munari. Si ricordava quanto Giulio Einaudi aveva precisato nel Colloquio di vent’anni prima con Severino Cesari: «Nel Consiglio del mercoledí si discuteva di “idee e di libri”, e non era il luogo dove parlare “di tirature, di vendita, di mercato”, se non a rischio di “tagliare le ali”». Ma, fin dalle prime righe, la raffinata ed energica studiosa metteva un punto fermo al ricomparire periodico delle critiche piú diverse all’impresa di Giulio Einaudi e alle sue scelte culturali e politiche.
Quando ormai anche le stagioni sembrano aver perso la naturale cadenza, a ritmare il passaggio del tempo, sopravvivono, implacabili e a regolari intervalli le polemiche sulla casa editrice Einaudi. L’occasione può variare. Si tratti di Delio Cantimori consulente della casa editrice, dell’iniziale rifiuto di Se questo è un uomo di Primo Levi; di Renato Poggioli collaboratore non difeso dagli attacchi di parte comunista; di Cesare Pavese e del suo Taccuino; della soggezione nei riguardi del Pci; dei modi con cui venne acquisita alla sinistra una egemonia sulla cultura italiana; fin della personalità e della «megalomania» di Giulio Einaudi: quello che in ogni caso si può dire è che ciò che l’Einaudi fu, continua ad essere un tarlo di cui uomini e organismi culturali, spesso di minor rilievo, non riescono a liberarsi. La domanda sottintesa è sempre la stessa: perché? e, come?
La passione per gli epistolari, fonte essenziale per la storia culturale e politica,l’ha portata a curare, nel 2004, sempre per Einaudi, Le Lettere dal confino 1940-1943 di Leone Ginzburg e a prefare, nel 2011 per Rubbettino, le Lettere (1945-1956) di Emilio Sereni, curate da Emanuele Bernardi, sulla base della imponente documentazione, conservata dalla Fondazione Istituto Gramsci.Non sembra casuale che, in quest’ultima occasione, Marisa abbia pubblicato un giudizio sull’«Italiano Qualunque» espresso dall’intellettuale e dirigente comunista, in una lettera a Giulio Einaudi di metà marzo 1947 (conservata a Torino), circa un progetto per una Breve storia dell’agricoltura e dei contadini d’Italia, che non vide la luce:
Si tratta di una storia del popolo italiano (dell’Italiano Qualunque) nei suoi canti. Si tratta di mostrare in maniera viva che l’Italiano Qualunque non è stato solo oppresso e sfruttato, che non ha detto soltanto «Franza o Spagna purché se magna», ma ha lottato e combattuto.
Marisa, nel licenziare la sua ultima raccolta di saggi in Civiltà della crisi, ha voluto sottolineare la «inattualità» di questi scritti, certamente in controtendenza rispetto alle fragili ed equivoche mode attuali. Tanto per non lasciare dubbi sul suo ripensamento della storia d’Italia, ha concluso con l’icastico giudizio espresso nel 1910 da Giovanni Amendola: «L’Italia come oggi è non ci piace».Addio Marisa, ci mancherai molto.