Io e il carcere

Oggi 14 agosto, giornata di sciopero della fame de lla sete per sensibilizzare sul problema carceri, pubblico questo mio scritto…

Basta entrare anche una sola volta in un carcere, e non da detenuto/a, perché cambi completamente il modo di vedere il mondo e le sue priorità: credetemi, l’ho sperimentato sulla mia pelle.

I miei “amici detenuti”: li definisco così con affetto da quando, per la prima volta, ho messo piede dentro un carcere come volontaria con l’art. 17 e anche dopo, una volta terminata quest’attività, dall’esterno con la corrispondenza “cartacea” che mantengo ancora con alcuni di loro.

Avevo da tempo il desiderio di fare volontariato in carcere e un giorno ho fatto domanda a quello della città in cui vivevo mettendomi a disposizione per qualunque attività fosse necessaria; ci hanno chiesto (da ora in poi parlerò al plurale perché ho condiviso quest’esperienza con mio marito) di fare cineforum in una delle due sezioni speciali” (“speciali”, per chi non conosce il mondo del carcere, sono quelle sezioni “isolate” dal resto della popolazione detenuta
per reati specifici, in genere associazione mafiosa e reati sessuali), un
bell’impatto, non c’è che dire: subito nella “bocca del leone” senza un minimo di esperienza animati solo da tanta buona volontà.

E a questo proposito voglio subito precisare una cosa, un comportamento che ci è venuto subito naturale tenere: ignorare totalmente il reato per cui ognuno di loro stava scontando la rispettiva pena e vedere, solo e sempre, l’essere umano, una persona che già con la scelta di non rimanere a “vegetare” in cella ma venire a vedere il film da noi proposto tentando di esprimere la sua opinione a conclusione della visione dimostrava di aver voglia di iniziare un cammino di
riabilitazione per un suo futuro reinserimento nella società in base all’art. 27 della nostra Costituzione.

Dato che l’esperienza in questa sezione ha incontrato il beneplacito della direzione ci è stato chiesto di allargare la nostra attività a tutte le altre sezioni del carcere a rotazione e abbiamo anche ottenuto di poter stare nello spazio-teatro e non più nella saletta di socializzazione all’inizio di ogni “braccio”: praticamente vedevamo lo stesso film sei volte di seguito, imparandolo a memoria, ma le reazioni delle persone erano sempre diverse e non sempre positive, di accettazione, ma anche questo era uno stimolo alla discussione democratica che è una cosa già difficile tra le persone fisicamente non ristrette e che parlano la stessa lingua.

All’inizio pensavamo di essere noi quelli “bravi” che dall’alto del nostro volontariato “elargivamo” come fossimo dei missionari nel Terzo Mondo, sarebbe stata questa una forma di violenza e di sopraffazione mascherata da “fare del bene”; ci siamo invece resi conto quasi subito che potevamo regalar loro solo il nostro tempo, la cosa più preziosa e gratuita che esista ma anche la più difficile da donare.

E loro ci hanno arricchito con i propri diversi percorsi di vita che li avevano portati a essere lì, con i tentativi e le difficoltà a partecipare al dibattito dopo la visione del film anche per la loro variegata multi-etnicità (circa quaranta lingue diverse) e quindi la poca conoscenza della lingua italiana, con le loro diverse forme di religiosità (che mi hanno dato gocce di nuove acquisizioni), con il loro assoluto rispetto nei nostri confronti (che si è trasformato in puro e vero affetto), con la loro voglia di sapere, di imparare, di sorridere.

Purtroppo questo nostro modo di fare volontariato si è scontrato con una certa parte della direzione e ci ha portato, purtroppo, a chiudere quest’attività e a continuare “dall’esterno” mantenendo una corrispondenza, cartacea naturalmente, con sei “amici” detenuti in quattro diverse carceri italiane, tutti condannati all’ergastolo, due di loro con l’aggravante dell’ostatività, un termine del diritto penale che significa che la persona non ha alcuna speranza di uscire vivo
dal carcere, i cosiddetti “uomini ombra” o “morti viventi” come li definisce uno di loro, Carmelo Musumeci, quelli con il “fine pena mai”.

Un ringraziamento di vero cuore va a Rita Bernardini che mi ha dato l’opportunità di essere con lei in alcune visite ispettive, veri e propri blitz, e a Marco Pannella che con la sua lotta non violenta, in cui rischia in prima persona la vita, mette sotto gli occhi della gente la situazione esplosiva delle carceri italiane, vere e proprie “discariche umane” come da lui tristemente definite.