vergogna, di J. M. Coetzee, recensione di Loredana De Vita

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“Vergogna” (Einaudi, 2014) di J.M. Coetzee è un romanzo “bello”, un aggettivo che di solito non amo attribuire ai libri, ma che in questo caso è l’unico che possa definire quello che provo dopo averlo letto. Che cosa è bello? È bello ciò che ti lascia qualcosa dentro, più di una cosa, spesso indefinibile e mutevole, sensazioni che non sono ancora compiute e complete, emozioni contrastanti e controvertibili.
Questo romanzo è “bello” perché non si esaurisce in una conoscenza e una interpretazione, ma, come una scatola cinese infinita, apre sempre nuove chiavi di lettura e percorsi di analisi possibili.
Quella del Professor Lurie (anzi, ex Professore per essere stato allontanato dalla sua Università per aver “sedotto” una sua studentessa), di sua figlia Lucy, di Petrus, Bev e degi altri personaggi (persino quelli letterari come Lord Byron, protagonista di un libro che Lurie vorrebbe scrivere), la storia di tutti questi personaggi e dello stesso Sudafrica che si erge a protagonista invisibile ma onnipresente della narrazione, è una storia drammatica, interiore, che sembra chiudere ciascuno in un circuito andato in cortocircuito entro il quale tutto sembra tornare allo stesso punto ma esplodere invece di riprendere il suo corso.
Forse, è proprio questa sensazione di deflagrazione costante che guida la narrazione di Coetzee, un rischio perenne che qualcosa di peggiore possa accadere, ma anche la rassegnazione a tale possibilità. Da una parte la colpa, dall’altra l’espiazione per una colpa pari e simile; da una parte la vergogna per quello di cui si è colpevoli, dall’altra la vergogna di chi, da vittima, sente di non essersi comportato diversamente.
Il titolo, in italiano “Vergogna”, diventa allora emblema di una responsabilità, della violenza perpetrata nel caso di Lurie, di quella subita nel caso di sua figlia Lucy, di quella protetta e occultata quasi fosse un atto lecito da parte di Petrus. La Vergogna, dunque, è la responsabilità mancata verso la dignità dell’altro, ma è anche il marchio della propria inettitudine, del proprio considerare “colpa” ciò che altri commettono contro di noi senza vedere che il suo peso specifico è pari a quello da noi inferto nel silenzio della nostra presupponenza.
Il titolo originale, invece, “Disgrace”, che in inglese indica la vergogna più nel significato di “disonore”, è rivolto a ciascuno dei personaggi di certo per le vicende vissute, ma apre un più ampio orizzonte di lettura nella considerazione della storia del Sudafrica, delle violenze e dei soprusi a titolo di nulla contro la popolazione di colore che sembra trovare voce nell’accettazione di una violazione pari contro i bianchi. Difatti, la vergogna, il disonore, appartengono a tutti coloro che violano la dignità dell’altro e diventano la “punizione” tramite cui purificare la propria indifferenza.
Che cosa resta da fare? Accettare il proprio destino, sembra voler dire l’autore, quasi una rassegnazione. Eppure, proprio in quell’azione di accompagnamento alla morte dei poveri cani nella clinica in cui lavora come volontario quando decide di restare accanto a Lucy convinta a portare fino in fondo la sua gravidanza anche se frutto di una violenza, proprio in quel gesto di restituzione di dignità Lurie troverà la sua dignità smarrita, così come la decisione di Lucy può non essere solo rassegnazione, ma desiderio di una vita nuova, di una vita che non paghi per la responsabilità altrui, ma conosca amore nuovo.
Molto interessante la presenza costante della letteratura inglese, in particolare quella di epoca Romantica di Lord Byron, nel pensiero di Lurie: un contrasto, ma anche un abbraccio con la natura più violenta del Sudafrica; un ponte, forse, tra le culture in cui ciò che ha dominato possa perdere la boria del dominatore e riscoprirsi essere umano che percorre, nel bene e nel male, il proprio destino.
Molto altro ci sarebbe da dire su questo romanzo di Coetzee che, insieme agli altri, fa di questo scrittore un “grande scrittore”, capace di narrare la vita dal suo interno senza risparmiare la denuncia del male, dell’incoerenza, del vuoto di senso di cui l’essere umano si rende spesso schiavo.
Una scrittura sempre lucida, diretta, fastidiosa persino per la sua chiarezza; uno stile senza pregiudizio né giudizio che consente al lettore di comprendere non di schierarsi perché forse è questo quello che ciascuno dovrebbe imparare: comprendere prima di scegliere.