accadde…oggi: nel 1912 nasce Giovanna Marturano, di Alice Strazzeri
Durante la Seconda guerra mondiale forme di opposizione nei confronti del Regime si ebbero anche prima del 25 luglio 1943, seppure più limitate e sebbene il largo sostegno degli italiani verso Mussolini. Giovanna Marturano e la sua famiglia ne furono un esempio.
Giovanna Marturano nacque nel 1912 da Antonietta Pintor e Anselmo Marturano, in una famiglia piccolo-borghese cagliaritana, fu la terza di quattro figli, due maschi, Carlo e Sergio, e due femmine, lei e Giuliana. Il padre era un impiegato statale della dogana, liberale, repubblicano, massone, con un carattere autoritario, teneva alla carriera e non si interessava alla politica. Giovanna racconta: «Dentro casa si lottava contro il padre autoritario, si è trattato di portare fuori e allargare quella battaglia». La madre invece prese sin da subito posizione contro il fascismo e fu una figura centrale nella vita di Giovanna così come in quella di tutti i figli, sia come madre che come maestra dei valori di democrazia, libertà, antifascismo e femminismo. Giovanna afferma: «dobbiamo a Lei in gran parte se siamo diventati comunisti!». Antonietta, seppur proveniente da una famiglia borghese, non poté studiare oltre alla quinta elementare essendo una donna, e, forse proprio per questo, tenne moltissimo all’educazione dei propri figli.
Nel 1922, poco prima della Marcia su Roma, la famiglia lasciò l’isola per la capitale, e qui Giovanna ebbe i suoi primi incontri col fascismo che così racconta: «io avevo 10 anni, con mia madre e mia sorella andammo in Corso Umberto, a Roma, e vedemmo un corteo di fascisti mezzi ubriachi che picchiavano tutti coloro che non volevano fare il saluto fascista. Poi nel mio quartiere un gruppo di fascisti fracassò la vetrina di un armaiolo e andò girando per il quartiere sparando per strada […] Questo è stato il primo impatto, noi ci siamo spaventate molto, questa violenza così gratuita, senza ragione. Poi tutto il resto: abbiamo visto i falò, la gente che veniva picchiata, la Camera del lavoro invasa. […] Il delitto Matteotti fu un colpo enorme, sembrò per un momento che il fascismo dovette finire, invece poi ricominciò tutto come prima. […] Tutte queste parate […] il fatto che siccome eri fascista tu potevi fare il prepotente, potevi avere più degli altri ecc… a certi piaceva, poi c’era la grande massa che abbozzava, il consenso vero era meno largo di quanto sembrava».
Nella capitale il primogenito Carlo iniziò a frequentare gli ambienti comunisti. La casa dei Marturano diventò presto un luogo di ritrovo di giovani antifascisti, compagni e talvolta funzionari di partito che portavano notizie e ambasciate. Giovanna racconta: «Da un po’ di tempo, venivano a casa a cercare Carlo molti giovani, non tutti compagni di scuola e non tutti dall’aspetto di studenti, ed, inoltre, per lo più provenienti da altre regioni. Alcuni erano chiaramente operai, o comunque uomini del popolo, avevano tutti modi cordiali». Nella casa venne organizzata inoltre una postazione per stampare manifesti, attività alle quali collaborarono tutti i fratelli. Giovanna racconta: «Nella nostra casa si formò un gruppo romano di antifascisti. Essendo una casa piccola la nostra, questo loro lavoro non poteva rimanere nascosto […] le matrici venivano messe ad asciugare in tutti i vari mobili di casa, e noi aiutavamo».
Nel 1930, in seguito a queste attività, Carlo, all’età di 22 anni venne arrestato. Fu un episodio che segnò profondamente Giovanna, è il primo arresto, quello più traumatico. Il padre fu informato dell’avvenuto solo successivamente poiché al tempo si trovava in provincia di Udine come ispettore della dogana ed in seguito a ciò decise di chiedere il trasferimento a Milano, che ottenne nel 1931. Egli sperava che allontanando i figli dall’ambiente romano, essi abbandonassero quelle compagnie ritenute da lui dannose.
Nel 1932 Carlo venne scarcerato per amnistia in occasione del decennale della “rivoluzione fascista” ma la sua libertà non durò molto, riprese subito contatti col partito e nel 1933 fu nuovamente arrestato insieme al fratello Sergio. La salute mentale di Carlo risentì pesantemente di questo secondo arresto, venne infatti ricoverato al Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma. La madre decise dunque di tornare nella capitale per poter assistere il figlio malato e l’altro in carcere. Tornarono tutti a Milano nel 1934, quando venne dichiarato guarito l’uno e scarcerato l’altro.
Nel 1936 tuttavia Carlo scappò clandestinamente prima in Svizzera e poi in Francia ma la sua salute non migliorò e la madre fu costretta a partire per accudire il figlio nuovamente ricoverato. Giovanna racconta: «Mia madre dovette partire precipitosamente per andare in Francia, lei li ricordava come gli anni più belli della sua vita perché in Italia non si poteva parlare male del fascismo […] lì invece c’era piena libertà. La chiamavano per farsi raccontare di come si stava sotto il fascismo e lei si sentiva utile».
In Francia, in quegli anni c’era il Fronte popolare che riuniva le forze di sinistra contro il nazifascismo. Antonietta, nel territorio francese ebbe modo di partecipare alle manifestazioni antifasciste e prendere contatti con la componente del Partito comunista italiano lì presente. In seguito al cambiamento della situazione politica francese e alla salute precaria di Carlo, il partito decise di organizzargli l’espatrio in URSS. Partito Carlo in URSS, la madre fece ritorno a Milano dove continuò la sua attività antifascista ed in seguito a ciò nel 1937 venne arrestata e condannata al confino a Ventotene. L’arresto di Antonietta, in qualità di antifascista e di confinata, rappresenta un’eccezione che evidenzia l’importanza della sua figura. Erano gli uomini infatti coloro che venivano mandati al confino, mentre le donne erano un numero ridotto e arrestate spesso per reati non politici, più frequentemente esse lo vivevano in modo indiretto come madri, figlie o mogli di arrestati.
Questo arresto fu un evento dolorosissimo per Giovanna, sebbene ormai anche lei militasse all’interno del partito e avesse preso la tessera, pertanto le perquisizioni e gli arresti erano elementi messi in conto, la privazione della figura materna fu una violenza che la colpì profondamente. Solo dopo molti mesi e tante pressioni, Giovanna, con la sorella, riuscirono ad andare a trovare la madre. La vita al confino era molto dura, nell’isola non c’era l’acqua che veniva portata da un vaporetto, poco il cibo e le condizioni insalubri, inoltre i confinati non potevano andare dove volevano ma solo in una parte dell’isola circoscritta dai limiti di confine. Le due ragazze, avendo mostrato troppa simpatia nei confronti dei confinati, non ebbero più il permesso di recarsi nell’isola e vedere la madre per ben quattro anni. Giovanna tornò a Ventotene per il suo fidanzamento con Pietro Grifone, amico del fratello Carlo e militante anch’egli sin dall’inizio, e per questo arrestato e confinato.
Rientrata a Milano, Giovanna iniziò a lavorare come operaia in fabbrica e prese inoltre contatti con le famiglie di alcuni confinati, tra cui la comunista Guglielmina Albergati, che divenne sua compagna di partito oltre che amica carissima, e della quale così racconta: «Fra le tante cose che mi insegnò, la più importante fu la sua grande umanità. “Il lavoro di partito – diceva – si deve fare con amore. É astratto pensare alla lotta per il miglioramento dell’umanità, se non si pensa che questa è composta di uomini e di donne che soffrono e vivono intorno a noi. Essere indifferenti o passivi all’oppressione e sofferenza altrui, vuol dire essere complici e responsabili, anche se sono altri ad infliggerle”».
Giovanna formò con Guglielmina un gruppo di Soccorso rosso che consisteva nel tenere contatti, fare visite e raccogliere soldi, viveri, medicine e indumenti per i compagni al confino o nelle carceri. Racconta: «I compagni nascosti e quelli al confine facevano la fame, ed anche quando veniva licenziato un compagno in una fabbrica bisognava aiutare. È capitato una volta un caso di un compagno che fu licenziato poco dopo che aveva iniziato a lavorare, la moglie incinta, senza un soldo. Io andai a trovare le famiglie dei colleghi di lavoro e gli spiegai la faccenda e furono tutti molto solidali sebbene avessero pochissimo anche loro. La moglie poi ci ringraziò molto e ci disse: “io non conoscevo il partito comunista, adesso ci credo a quello che qualcuno mi ha detto, un fratello non mi avrebbe potuto aiutare meglio di come avete fatto voi”. Certo la situazione rimaneva brutta lo stesso, però c’era anche il conforto, la solidarietà conta».
Nel 1938 Giovanna venne arrestata ma fu rilasciata dopo un mese per insufficienza di prove sebbene, in seguito a questo episodio, venne sottoposta ad un periodo di sorveglianza speciale. Il fratello Sergio, invece, arrestato anch’esso lo stesso giorno, fu condannato a quattordici anni di carcere. Intanto il padre chiese di essere messo a riposo e, non essendo più impiegato dello Stato, con il congedo perdettero la casa a Milano.
Nel 1940 poco prima dell’entrata in guerra, Giovanna riuscì a trovare un’altra casa nel capoluogo lombardo e lì visse con Giuliana e per un breve periodo anche con il padre. La madre invece, ancora confinata, poteva godere del sussidio governativo giornaliero che veniva dato ai confinati ma questo era stato ridotto nel 1929 da dieci a cinque lire, e risultava insufficiente, inoltre le sue condizioni mentali si aggravarono, continuamente depressa e nervosa iniziò ad accusare manie di persecuzione. Giovanna dunque, col suo stipendio da operaia, doveva pensare anche a lei in quanto i fratelli non potevano aiutare economicamente essendo uno in carcere e l’altro in URSS; mentre la sorella Giuliana si trovava al sesto mese di gravidanza e col marito al fronte.
Il 10 giugno 1940 Mussolini da Palazzo Venezia annunciò l’entrata in guerra dell’Italia. Durante la guerra Giovanna continuò a militare nel PCI e successivamente prese parte alla Resistenza, di ciò racconta: «Durante la Resistenza il partito mi aveva incaricato di far parte del gruppo di iniziativa femminile che a Roma organizzava e sollecitava il lavoro delle donne nei quartieri. Io facevo un lavoro di base, cioè avevo tanti contatti con tante persone anche al di fuori del partito, perché se volevi fare un lavoro largo non lo potevi fare solo con i compagni, questo voleva dire rischi maggiori, ma andava fatto. […] portavamo le donne a fare delle azioni, di vario tipo, andavano sui treni e nei passaggi a livello a buttare i manifestini. Una volta nel treno quello che stava vicino a me se ne accorse e pensai: “Mammamia mo’ questo mi denuncia!” – d’altra parte cosa potevi fare?, o facevi così o non facevi niente – e quello invece mi disse: “Brava compagna!”. […] Le donne romane furono coraggiose, quelle popolane, delle borgate […] conducevano una vita di miseria, e sebbene tutto avevano il coraggio di fare la lotta pericolosa esponendosi in maniera coraggiosa sempre in avanti».
Dopo la guerra Giovanna fu una figura centrale dell’Unione delle donne italiane (UDI), e lottò affinché alle donne venisse data la possibilità di partecipare attivamente alla vita politica del proprio Paese. Racconta: «Io ero presente quando hanno telefonato all’UDI e c’era Rita Montagnana e hanno annunciato che finalmente avevamo il voto […] mi prese per mano e facemmo un girotondo, era un successo grandissimo questo del voto alle donne, che avevamo sudato eh! Non è che ce l’avessero regalato. L’UDI è stata una cosa importante, ed anche la sua rivista Noi donne, perché per la prima volta noi facevamo una cosa autonomamente, finanziamento, organizzazione, propaganda, scrittura del giornale, tutto solo donne! Avevamo una voce pubblica. […] ci prendevano in giro, ci strattonavano, ci appellavano “puttane”, “invece di badare ai bambini ti metti a fare politica che è cosa da uomini? torna a fare la calzetta!”. […] Ci si era messa pure la scienza, c’erano delle teorie che sostenevano come le donne fossero nate con un cervello più piccolo e ciò non gli permetteva di fare certe cose. Questo sino a parecchi anni dopo la Liberazione!»
In questa sua battaglia femminista, Giovanna si scontrò anche con i compagni di partito che presentavano posizioni ancora arretrate e maschiliste riguardo a tali tematiche. Racconta: «mi ricordo di questo medico comunista che mi disse: “Che ci volete fare, è così!” […] c’era anche da parte di alcuni compagni un atteggiamento molto strano, soprattutto nei confronti delle giovani compagne, sostenevano la teoria che siccome loro erano stati in galera, avevano avuto una vita dura, beh tu sei una compagna devi essere con me gentile […] e questo lo sostenevano diversi compagni, anche bravi, e poi quando si doveva decidere se dare una responsabilità, si vagliava spesso di mettere il compagno invece che la compagna. Io non sono una persona che difende a priori il partito, ci sono delle cose talmente grandi che superano i difetti, è chiaro, però anche questi ci sono, bisogna riconoscerli e correggerli».
Sino a quando poté, Giovanna Marturano continuò ad andare nelle scuole per raccontare la sua esperienza. «Parlare con i giovani è importante, perché bisogna dal principio creare le basi di una moralità e di una mentalità diversa. Una delle cose secondo me molto importante, è dare un esempio di vita, e poi parlare con la gente, interessarsi all’altro e farlo veramente, non a parole, né per politica, ma perché questo fa parte della tua mentalità. […] Voi giovani avete un futuro incerto e vivete sicuramente una situazione difficile, ma c’è un unico modo per poter cambiare le cose ed è lottare tutti i giorni, in tutti gli episodi della vita, non solo quando c’è un anniversario. La lotta non si può mollare, serve sempre, anche quando sembra che non ci sia un risultato possibile. L’avanzare della società è in mano ai giovani, dobbiamo avere anche un po’ di modestia, non dobbiamo andare da loro come dei professori, da tutti si impara. Io ho fatto una vita dura, ho cercato di farla il più normale possibile, ma certo molte cose mi hanno impedito di fare una vita normale, però io dico che ho fatto una vita migliore di molte altre, perché ha avuto uno scopo, un significato, è stata una vita utile. Ancora adesso io posso dire: “non vi preoccupate quando io non ci sarò più, perché dopo tutto io ho vissuto e ho vissuto bene!”».