Amy Foster, di Joseph Conrad, recensione di Loredana De Vita

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Ancora una volta Joseph Conrad non tradisce le aspettative, il suo “Amy Foster” ( Einaudi, 2022) è un racconto che in sole 55 pagine svela la realtà della discriminazione, un filo lungo quanto la circonferenza della Terra e ogni sua longitudine o latitudine e che denuda la crudeltà dell’uno verso l’altro in nome della differenza che non si riconosce né accoglie.
Non si tratta, nel racconto, di discriminazione razziale, ma culturale, eppure, l’autore, con grande perizia e acume nella lettura dei sentimenti e delle emozioni, riesce a descrivere l’universalità di una forma di totale separazione tra sé e l’altro nella presunzione del proprio diritto di superiorità.
Nelle pagine del racconto, introdotto da un saggio di Hisham Matar, possiamo leggere la sofferenza dell’esperienza personale dello stesso Conrad, ma anche la sofferenza di tutti coloro che lasciano la propria famiglia, la propria terra, per “fare fortuna” o, meglio, trovare una possibilità di vita migliore, ma che spesso sono abbandonati nella solitudine e nell’isolamento più forte immaginabile, sebbene il più assurdo.
“Amy Foster” è un racconto in cui Conrad affida alla sua abilità letteraria la diversa sofferenza di chi si trova dinanzi a un “diverso”, che è qualcuno cui, come dice Conrad, “ci si abitua (…), ma non diventa mai uno di noi”. È questa la drammatica premessa e anche l’epilogo di questa breve storia la cui narrazione Conrad affida al narratore, ma che questi riceve da Kennedy, medico del villaggio, che a sua volta l’ha ricevuta dallo stesso protagonista, Yanko, o dalle voci di coloro che lo hanno conosciuto e temuto e offeso.
Yanko è un giovane uomo proveniente dalle montagne dei Carpazi, con la sua cultura, la sua lingua, le sue tradizioni, che si imbarca ad Amburgo con il desiderio di raggiungere l’America e cambiare in meglio la sua vita. Un naufragio modificherà la sua rotta, si salverà sulla costa britannica e qui vivrà fino al suo ultimo respiro odiato, temuto, respinto, offeso da tutti (bambini inclusi) che non ne comprendono la lingua, l’aspetto, il modo di muoversi, il legame con la natura. Solo Amy Foster, una ragazza strana, timorosa e selvatica insieme, riconoscerà l’umanità di Yanko e lo sposerà. Quando, però, avranno un figlio, tutto cambierà e porterà al drammatico epilogo che, spero, in molti leggeranno.
Yanko era perseguitato dalla paura del mare, tutti gli altri da ciò che il mare aveva portato nella loro terra. Tutti avevavo paura di una lingua diversa e incomprensibile, ma anche Yanko condivideva verso la lingua di tutti, la stessa sensazione di timore e spaesamento. Forte è, leggendo, la sensazione di una responsabilità collettiva nell’isolamento di chi ha perso tutto, anche la lingua di appartenenza. La lingua è importante, è radice e origine, poiché una lingua non è solo suono, ma Storia, tradizioni, colori, vita.
Leggendo “Amy Foster” (Einaudi, 2022) di Joseph Conrad, non si può non pensare alla condizione di ogni migrante che mette a rischio tutto di sé nel desiderio di trovare un luogo che lo accolga e che gli consenta di essere ciò che è. Non si può non pensare alla difficoltà linguistica di chi si ritrova a non comprendere più il suono delle parole né a coglierne la narrazione. Un dramma che ci si abitua a guardare da un solo punto di vista, il nostro, ma che apre, invece, una prospettiva più vasta e più dolorosa. Lo suggerisco caldamente.