quando l’arte è femmina, di Ester Rizzo
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Quando le arti sono di mano femminile spesso vengono sottovalutate, schiacciate da una sorta di cultura androcentrica che le considera marginali e quindi le discrimina. Abbiamo notizie delle prime donne pittrici da Plinio il Vecchio che ci ha tramandato il nome di alcune artiste greche che riteniamo essere tra le prime e le più famose: Timarete, Kaliypso, Aristarete, Iaia e Olympas. Facendo un bel balzo in avanti nel tempo, nel 1940 il pittore/scultore Mimì Lazzaro così scriveva: ”Una volta le fanciulle di buona famiglia che, oltre a pestare i tasti del pianoforte, temperavano i colori all’acquarello si contavano a migliaia, ma si trattava di titoli a concorso matrimoniale e smettevano all’annuncio del primo marmocchio”.
Andando a ritroso nei secoli, quest’affermazione potrebbe spiegare l’esiguità del numero delle pittrici. Le donne non avevano accesso ad una “formazione pittorica”, basti ricordare che fino al 1893 le ragazze non erano ammesse alla scuola di nudo della Royal Academy di Londra e quando in seguito furono accettate, i modelli che si mettevano in posa per loro, dovevano avere i genitali coperti. E in quel periodo non andava meglio nelle altre nazioni europee: le pittrici potevano dipingere solo fiori, ritratti e nature morte. Inoltre i premi e le facilitazioni accademiche erano riservate solo agli uomini.
All’inizio del Novecento alcune cose cambiarono grazie soprattutto alle donne che si erano battute per acquisire dei diritti nel secolo precedente. E così le artiste iniziarono a studiare nelle Accademie, accedere a borse di studio e partecipare ai concorsi, anche se con molte difficoltà. Nel 1908 si inaugurò a Parigi la prima mostra dedicata esclusivamente alle artiste, ma le donne raramente ricevevano l’attenzione della critica e le loro produzioni non venivano acquistate da collezionisti privati o pubblici come invece accadeva per i colleghi.
Le temerarie che sono riuscite ad abbattere tutti questi ostacoli sono poche e la sorte è stata ulteriormente ingrata con loro: sconosciute, sottovalutate o dimenticate, senza adeguato spazio nella cultura cosiddetta “ufficiale”.
Nel 1500, in Italia, ricordiamo Suor Plautilla Nelli che in realtà si chiamava Polissena de’ Nelli. E’ considerata la prima pittrice di Firenze. Nata lì nel 1524 da una nobile famiglia, prese il velo all’età di tredici anni ed i voti a diciannove. Fu autodidatta, della sua produzione artistica ci restano sette tavole ed una tela, anche se il Vasari ci informa che dipingeva tanti quadri “per le case de’ gentiluomini di Firenze” ed esterna il suo lusinghiero giudizio scrivendo: ”avrebbe fatto cose meravigliose se, come fanno gli uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali”. Plautilla oltre ad essere pittrice di soggetti religiosi era anche una ritrattista ed una miniatrice. Vincenzo Fortunato Marchese, nelle sue “Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani”, nel 1845, così scrive: ”E’ tradizione che Suor Plautilla, volendo studiare il nudo per la figura di Cristo, si giovasse di quello di una monaca defunta, e le altre suore celiando fossero solite dire, che la Nelli in luogo di Cristi faceva Criste …”
Sofonisba Anguissola nata a Cremona nel 1535 e morta a Palermo nel 1626, è una delle poche che si è conquistata un po’ di spazio nelle pagine dei libri d’arte. Suo padre, eludendo i pregiudizi dell’epoca, concesse sia a Sofonisba che alle sue quattro sorelle, la possibilità di studiare letteratura, musica e pittura anche se fu precluso lo studio della matematica, della prospettiva e della tecnica dell’affresco. Nonostante ciò, Sofonisba dipinse opere notevoli, soprattutto ritratti. Si sposò con Fabrizio Moncada, fratello del vicerè di Sicilia ma rimase presto vedova. Dopo un anno dalla morte del marito, conobbe il nobile Orazio Lomellini e contro il parere di tutti, si risposò. Nonostante i tanti lavori eseguiti durante la sua vita, non fu mai pagata in contanti per le sue opere, come invece avveniva per i colleghi maschi; a lei solo doni e qualche rendita. Da alcuni documenti si evince che suo padre e suo fratello spesso beneficiavano delle somme versate per i lavori che lei eseguiva.
Anche Artemisia Gentileschi vanta un primato: fu la prima donna ad essere ammessa in un’accademia d’arte, l’Accademia del Disegno di Firenze, la più antica al mondo. Il suo nome ed il suo talento sono oggi abbastanza conosciuti. Così scriveva suo padre, il pittore Orazio Gentileschi, a Cristina di Lorena, descrivendo la figlia: “Questa femmina, come è piaciuta a Dio, avendola drizzata nella professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir de dire che oggi non ci sia para a lei, avendo per sin adesso fatte opere che forse i principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”.
Rosalba Carriera fu la prima miniaturista in avorio della storia mentre Lia Pasqualino Noto fu la prima donna ad aprire a Palazzo De Seta a Palermo, la prima galleria d’arte privata della Sicilia, di cui assunse la direzione fino al 1940.
Arrivando ai nostri giorni e in un’altra parte del mondo, ci piace ricordare Shamsia Hassani che è la prima donna street artist afghana. Shamsia in arabo significa sole, un bel nome per chi ha deciso di dipingere nonostante i divieti imposti nel suo Paese d’origine l’Iran, dove è nata nel 1988. Insieme ai genitori si rifugiò in Afghanistan ed oggi è docente di Scultura alla Facoltà di Belle Arti di Kabul. Con i suoi graffiti ha portato l’arte nei luoghi più degradati, su muri ed edifici sventrati dalle bombe. Con i colori spera di coprire le brutture e le cicatrici lasciate dall’odio, dalla violenza, dalla guerra.
Racconta che spesso mentre lavora viene molestata o aggredita, a volte le lanciano delle pietre ma lei non demorde, poiché non è la polizia a disturbare il suo operato ma “la gente dalla mente chiusa”. Dice “devo combattere ogni giorno con stereotipi di genere e l’ostilità di chi pensa che stia imbrattando i muri”. Uno dei suoi graffiti più noti a Kabul, ritrae una figura femminile con un burqa seduta sui gradini di un’abitazione diroccata. Per Shamsia è la rappresentazione dell’incertezza femminile odierna, quella donna non sa se riuscirà a salire quelle scale per arrivare ad una posizione più dignitosa in seno alla società. Per ora, seduta, aspetta fiduciosa. Così racconta in un’intervista: “Di solito dipingo donne con il burqa ma in una versione più moderna. Voglio raccontare le loro storie e trovare un modo per salvarle dal buio … aprire le loro menti per apportare qualche cambiamento positivo … io voglio mostrare che le donne sono tornate nella società afghana proponendo un nuovo modello … una donna più forte … non quella che sta a casa ma una donna piena di energia che vuole ricominciare a vivere”.