a piedi da Alice Springs all’oceano Indiano, di Tiziana Concina

A piedi da Alice Springs all’Oceano Indiano

Alice Springs deve essere un luogo molto particolare: una città persa in un deserto, lontana da tutto, al centro di un continente – l’Australia – in cui la natura sembra aver dato vita a un mondo a parte, rovente e colorato. Da Alice Springs partono sia Robyn Davidson, sia Bruce Chatwin, la prima a piedi e in compagnia di quattro cammelli e un cane, il secondo, circa dieci anni dopo, insieme ad altri viaggiatori e su di una Land Rover.

Da entrambi questi viaggi nascono pagine intense, Davidson pubblicherà un bel romanzo dal titolo Orme, da cui verrà tratto nel 2013 un film con lo stesso titolo, ma il libro di Chatwin, Le vie dei canti – ça va sans dire – avrà molta più fortuna. Andiamo con ordine. Robyn Davidson è una bella ragazza di venticinque anni, cresciuta nel Queensland, che arriva ad Alice Springs nel 1975 con un’idea folle in testa: addomesticare alcuni dromedari con i quali attraversare la zona più calda e arida del paese, camminando per ben 2700 km, fino ad arrivare alla costa occidentale del paese. Per quanto nell’immaginario comune i cammelli e i dromedari abbiano poco a che fare con l’Australia, in realtà vi furono importati nella metà del XIX secolo per trasportare merci, si resero molto utili fino a quando furono sostituiti da mezzi a motore. A quel punto vennero liberati e prosperarono nell’arido clima australiano fino a costituire una numerosa popolazione di camelidi nuovamente selvatici.
Robyn arrivò in città con un piccolo bagaglio e la sua cagnetta di nome Diggity, senza sapere nulla né di cammelli, né di deserto e non è difficile credere che suscitò l’ilarità dei locali, in particolare degli uomini che frequentavano il bar in cui la ragazza trovò un primo impiego, bianchi razzisti e misogeni. Eppure Robyn sapeva di dover compiere questo viaggio anche a costo di pagare un prezzo piuttosto caro in termini di sacrifici e fatica. Per mesi si sfinì lavorando in una fattoria che allevava cammelli, si abituò a non aver paura di questi animali, a guidarli, a prendersene cura, ma soprattutto imparò ad amarli: «Sono affettuosi, insolenti, giocherelloni, spiritosi (sì, spiritosi), padroni di sé, pazienti, forti, e sono soprattutto fonte continua di curiosità e di fascino» (Robyn Davidson, Orme). Dovette elemosinare le conoscenze da chi era più esperto di lei e lottare per ottenere i cammelli che l’avrebbero accompagnata nel viaggio e poi bisognava imparare a conoscerli, a comprenderne i caratteri e i bisogni, era necessario abituarli alle selle e alle some, e provvedere, con pochissime risorse, a quanto risultasse indispensabile per affrontare una traversata così impegnativa.

Tuttavia questo lungo e doloroso apprendistato permise alla ragazza bionda e un po’ folle, che arrivava dal mondo civile, di entrare in contatto con sé stessa e con il paesaggio estremo, torrido e desertico, quasi lunare, che voleva attraversare. Imparò a stare da sola e a fare a meno degli altri, a dimenticare le buone maniere della sua educazione superiore e a difendersi, ma anche a chiedere aiuto e a cercare amicizie vere.
In questo percorso di crescita attraversò momenti di disperazione, nei quali la meta ultima del viaggio sembrava perdere ogni senso, e momenti di euforia, ma seppe resistere, fedele alla consapevolezza interiore che l’intero progetto rispondeva al bisogno profondo di mettersi alla prova e di conoscersi.
Il colpo di fortuna arrivò con una lettera del National Geographic che si dichiarava interessato a finanziare l’avventura, a patto che il viaggio venisse documentato da un fotografo incaricato dalla rivista, Rick Smolan, che avrebbe raggiunto Robyn durante il percorso. Il denaro offerto era indispensabile all’acquisto di beni primari, ma avrebbe inevitabilmente portato con sé obblighi e interferenze, prima tra tutte la presenza del fotografo che Robyn sente come un’imposizione, una catena che snatura lo spirito stesso del viaggio. Rick si mostrerà, invece, un buon amico e, pur non comprendendo sempre le motivazioni della viaggiatrice, saprà rispettarne i tempi e le decisioni, lasciando come testimonianza di quest’esperienza un bellissimo reportage ancora reperibile in rete.

E venne il momento di partire per Robyn, Diggity e i quattro dromedari, che nel romanzo sono sempre indicati come cammelli: Zeleika, con il suo primo nato Goliath, Dookie e Bub, ognuno con caratteristiche uniche e una posizione precisa nel gruppo. Dopo una così lunga attesa, mettersi in cammino fu quasi una liberazione: la solitudine, il silenzio, un passo dopo l’altro, la bellezza del deserto che, nella buona stagione, sa fiorire di colori. Giunsero anche le difficoltà, c’era il pericolo di perdere la pista mal segnata, le some si spostavano con il movimento e potevano cadere, i piedi e le zampe portavano i segni della fatica, l’apprensione per il benessere dei cammelli, senza i quali era impensabile proseguire, imponeva una tensione che non si allentava. Non sempre era facile identificare i pozzi segnati sulla carta, una volta trovati, potevano essere secchi o inquinati e senz’acqua nel deserto si muore. Non sempre gli animali trovavano di che nutrirsi e di notte, per quanto impastoiati, potevano allontanarsi per brucare cibo migliore, costringendo Robyn a faticose ricerche mattutine.

Il progressivo avanzare nel bush portava con sé una sorta di straniamento, camminare per ore in totale solitudine, spesso in un calore asfissiante, ripetere ogni giorno gli stessi gesti – caricare i cammelli, viaggiare, accamparsi, nutrire se stessa e gli animali – finì con il cancellare il senso dello scorrer del tempo e quanto più la lontananza dal mondo civile ne faceva sbiadire le abitudini e i bisogni tanto più Robyn affondava in una dimensione nuova, di concentrazione e introspezione, che le permetteva finalmente di fare i conti con il proprio passato, con la memoria e il dolore per la morte della madre, suicida.
Solo il silenzio del mondo e la solitudine delle notti, passate abbracciata al corpo caldo di Diggity, poteva far emergere il senso profondo del vivere che questa ragazza coraggiosa andava cercando.

Viaggiare con gli animali, attraversando una natura antichissima e primigenia, spesso stupefacente, estranea all’opera umana, significava intessere un dialogo con il non umano, scoprirne la forza e il valore. Ma la vita, quando non è addomesticata, impone anche durezza. Robyn era stata avvertita del pericolo rappresentato dai branchi di cammelli selvaggi che possono attaccare e uccidere, e quando si trovò ad affrontarli dovette sparare e veder morire sotto i suoi occhi bellissimi giovani maschi a cui non avrebbe mai voluto fare del male ma che costituivano un pericolo per sé e le sue bestie. Dovette porre fine anche all’agonia di Diggity, avvelenata dal cianuro sparso in esche per eliminare i dingo, e guardare il corpo senza vita della cagnetta amatissima, della confidente, dell’amica più cara in tanta solitudine. Naturalmente, anche nel deserto australiano si possono incontrare esseri umani, a volte sono turisti, confusionari e invadenti come quelli che profanano Ayers Rock, l’enorme monolite che sorge dalla pianura, luogo sacro per i nativi, il grande Uluru; a volte invece sono aborigeni che, su macchine scassatissime vendute dai bianchi, si muovono sul loro territorio.
Robyn conosce, in un insediamento vicino a Wingelinna, Eddie, un anziano della tribù dei Pitjantjara, che la accompagnerà a Warburton. Fin dalle prime pagine del romanzo emerge il fastidio e la rabbia della scrittrice per il razzismo che contraddistingue i bianchi australiani: non solo gli occidentali si sono impadroniti della terra senza alcun rispetto per i precedenti abitanti, ne hanno sfruttato le risorse, distrutto l’equilibrio della fauna, importando specie letali per le forme di vita autoctone, ma hanno ridotto i villaggi dei nativi a insediamenti poverissimi, simili a campi di concentramento, ignorando e disprezzando una forma di cultura originale, che la superbia dei conquistatori non ha saputo né voluto riconoscere, almeno fino a tempi recenti. L’impatto con la modernità ha travolto quel mondo, ne ha distrutto le basi e ha trasformato molti dei nativi superstiti da nomadi, capaci di sopravvivere nel deserto grazie a conoscenze millenarie, in vagabondi dediti all’alcol, assediati dalla povertà e dalle malattie.
L’incontro con Eddie diventa una specie di apprendistato attraverso il quale Robyn entra in contatto con un altro modo di pensare la vita e la terra: «Il vecchio aborigeno mi stava insegnando qualcosa di nuovo sul fluire di tutte le cose, sull’importanza di scegliere il momento giusto, sul sapersi godere il presente». Camminare con Eddie significava partecipare al legame antichissimo esistente tra quegli uomini e il loro territorio, un vincolo basato sul presupposto, lontanissimo dalla nostra civiltà, secondo il quale non ci può essere proprietà ma solo responsabilità nei confronti della terra poiché ogni cosa è sacra e va conosciuta, rispettata e tramandata.

Eddie si muoveva con gioia, sempre a proprio agio, comunicava pienezza e solidità, ed esprimeva un senso di identità con quei luoghi nei quali sapeva confondersi e dai quali traeva il necessario: «La terra non era selvaggia, ma docile, generosa, benigna, purché tu sapessi vederlo, e riuscissi ad esserne parte». Il confronto tra l’allegra saggezza del vecchio e la rozza, idiota supponenza del turista che, arrivato comodamente in auto, si permette di offendere Eddie, fa schiumare di rabbia la ragazza ben consapevole di quale delitto, di quale irrimediabile scempio si siano macchiati coloro che hanno profanato quella terra, disperso le tribù, cancellato le tracce lasciate dagli esseri ancestrali che con i loro canti hanno creato il mondo. Quando Robyn riprende a camminare da sola ha fatto ormai tesoro di tutte le esperienze precedenti, il suo corpo è bruciato dal sole e indurito, le labbra sono spaccate ma soprattutto ha accettato di rinunciare a barriere e condizionamenti, alle strutture che abitualmente utilizziamo per definirci e riconoscerci, ma che in situazioni eccezionali, come l’attraversamento di un deserto che sembra infinito, non sono più utili, mentre diventa necessario sapersi pensare in relazione al tutto. Lentamente aveva imparato a leggere l’ambiente in cui si muoveva e a sentirsene parte, non razionalmente ma a livello istintivo, quasi inconscio: «Nel deserto, l’io diventa sempre più simile al deserto stesso. E deve anche sopravvivere. E diventa così infinito, e le sue radici sono più nell’inconscio che nel conscio – si spoglia di una serie di abitudini che non hanno più senso, e si concentra sempre più sulla realtà che è strettamente legata alla sopravvivenza».

La giovane donna era partita con un gran bagaglio e, lentamente, se ne era spogliata, era rimasto solo ciò che è necessario, quel poco che non appesantisce e non lega, «Mi sentivo libera, senza catene, leggera, e volevo rimanere come ero in quel momento».
Dopo mesi di cammino Robyn e i suoi cammelli si stavano avvicinando alla costa occidentale ed erano entrati nella zona delle fattorie, in cui le piste erano utilizzate spesso e i pozzi più frequenti, ma prima di giungere definitivamente al mare, meta ultima, e di immergersi nelle acque dell’Oceano Indiano con le sue bestie, divertite e stupefatte da quella pianura liquida, la viaggiatrice deve subire la persecuzione di fotografi a caccia di foto. Mentre Robyn camminava lontano da tutto, la notizia della sua avventura era giunta ai giornali che volevano scrivere della ‘signora dei cammelli’: fa notizia una donna, per definizione fragile e paurosa, che sa liberarsi delle pastoie a cui la condanna l’educazione e la società per recuperare fiducia in se stessa e coraggio. Ciò che è eccezionale crea il mito, più raramente l’esempio.